Nato, Russia-Ucraina: colmare il vuoto nel 1991 e ridare centralità ai membri fondatori
Il dovere di un giornalista è analizzare la realtà, magari col rischio di diventare antipatico o, peggio ancora, di vedersi affibbiare l’odiosa ma ormai diffusa etichetta di “putinista”. Eppure, anche in questo caso, la sua natura di analista obiettivo non deve venire meno. E se l’aggressione all’Ucraina si condanna senza se e senza ma, è altrettanto lecito porsi domande e provare a dare ad esse una risposta… Nel conflitto ucraino la Polonia sta assumendo un peso sempre maggiore. E’ di fatto il membro NATO più vicino ai confini con la Russia, nonché il paese con una economia e con un apparato difensivo più forte.
Vi abbiamo già esposto la posizione di Varsavia nei confronti della Russia, cercando anche di interpretare le eventuali ambizioni dei polacchi durante e dopo la crisi. Una situazione difficile, in verità: la Polonia è infatti animata da un profondo sentimento anti-russo ed ha, forse, frainteso il ruolo della NATO che non è certo muovere guerra quanto garantire, oltre alla deterrenza militare, una capacità diplomatica tale da assicurare al Vecchio Continente pace ed equilibrio con il vicino russo.
Russi che, con ogni probabilità, non invaderanno le Repubbliche baltiche né il territorio polacco: l’ “operazione speciale” ha come fine ultimo rafforzare la loro presenza nel bacino del Donec e nel Mar Nero senza spingersi però verso Occidente. Provocherebbero altrimenti una reazione a catena tale da travolgerli, in una fase peraltro in cui le sanzioni e l’isolamento li sta già duramente provando.
La Guerra fredda ci ha dato una grande lezione: mantenimento delle sfere d’influenza, tenendo gli ICBM ben sicuri dentro i silos. A meno che, certo, qualcuno non voglia accendere la miccia di un confronto totale.
In quasi mezzo secolo di mondo diviso in blocchi, la NATO “originale” (i paesi fondatori) è stata capace di assicurare una pace duratura, compiendo anche compromessi e sacrifici che hanno tolto il sonno.
Non è stato infatti facile chiudere un occhio davanti alla repressione sovietica delle rivolte di Berlino Est, Potsdam, Danzica, Budapest e Praga, tuttavia l’aver evitato l’intervento ha impedito una pericolosa escalation.
I paesi dell’Europa orientale, allora sotto il tallone sovietico, non possono comprendere le ragioni di quelle scelte: convinti di essere le vittime della Storia e di essere stati sacrificati dagli Alleati al termine della Seconda Guerra Mondiale sull’altare della diplomazia, rivendicano oggi, nell’Unione Europea e nella NATO, il ruolo di contenimento di Putin per la difesa delle istituzioni democratiche occidentali. Per la serie: “i russi li conosciamo, fidatevi di noi. Prima li colpiamo meglio è”-
Il gioco è molto più complesso, in realtà, andando ben oltre considerazioni che nulla hanno a che vedere con la realpolitik. Né si può pensare che un rafforzamento delle frontiere orientali dell’Alleanza (magari sotto guida polacca) sia sufficiente a tenere in scacco il Cremlino.
Il motivo che forse ha spinto Putin all’ “operazione speciale” è stata proprio la rapida estensione della NATO a oriente e, altresì, gli interventi condotti negli ultimi vent’anni da Stati Uniti ed alleati in Serbia, Iraq, Afghanistan, Africa settentrionale e Siria. In particolare, in Libia ed in Medio Oriente il Cremlino ha assistito ad un attacco a paesi ad esso vicini (o nei quali aveva interessi in ballo) conclusisi con una situazione molto lontana da quel ritorno alla democrazia ed alla pace prospettato da Washington. Sul suo fianco orientale ha invece visto nazioni ad esso fortemente ostili armarsi ed equipaggiarsi sotto cappello NATO.
Situazioni andatesi a creare perché la Russia ha perso il peso internazionale di cui godeva ai tempi di Krushev, Breshnev ed Andropov.
Tanto per fare un esempio, il 14 gennaio 1980 l’Assemblea generale dell’ONU condannava, con una risoluzione votata da 107 paesi, l’aggressione sovietica all’Afghanistan. Quella guerra non si doveva fare eppure l’Urss la combatté per altri nove anni, fino al febbraio 1989 quando i tank russi attraversarono il “Ponte dell’Amicizia” e fecero ritorno in patria.
In altre parole, si poteva condannare l’aggressione apertamente ma senza andare troppo oltre: l’Unione Sovietica era comunque una potenza nucleare, nonché il secondo paese più potente del mondo.
L’ammaina bandiera del 26 dicembre 1991 ha però generato uno sbilanciamento degli equilibri internazionali a favore dell’Occidente, che aveva vinto la Guerra fredda senza tuttavia fare tesoro delle lezioni che quel conflitto aveva dato. Lezione n.1 : la Russia, piegata ma non scomparsa, non poteva essere esclusa tout court dal riassetto mondiale. Lezione n. 2: la politica estera degli Stati Uniti era inconciliabile con quella dell’Europa.
Ad esempio, se l’Italia in Congo, in Libano e più tardi in Somalia era proiettata verso il mantenimento della pace e della sicurezza con attente e pianificate missioni di peacekeeping, gli USA continuavano a condurre operazioni con strategie da Seconda Guerra Mondiale. Hanoi doveva essere stata sufficiente a far capire che la tecnologia e il potenziale bellico fossero insufficienti di fronte a popoli animati da un forte nazionalismo, da ideologie e credi religiosi totalizzanti e determinati a vincere. Però, la divergenza fra Stati Uniti ed alleati europei è andata aumentando, amplificandosi nelle missioni irachena ed afghana. Se i militari di Italia e Germania sono stati a lungo ricordati ed apprezzati dai locali per impegno, professionalità e soprattutto umanità, stessa cosa non si può dire per i G.I.
Non è cattiveria né anti-americanismo: l’Italia, la Germania, la Gran Bretagna hanno vissuto sulla loro pelle gli effetti di due guerre devastanti, comprendendo dunque quanto importante fosse dare, prima di tutto, senso di sicurezza, fiducia e speranza alle popolazioni delle aree di intervento.
Gli Stati Uniti invece sono troppo lontani dall’Europa e dall’Asia sia geograficamente sia per cultura ed approccio ai problemi: nel 2003 un’inviata di guerra RAI a Baghdad dichiarò che, dopo tre mesi con i soldati statunitensi, i militari italiani le erano sembrati laureati del MIT (Massachusetts Insitute of Tecnology).
Non è dunque casuale che, dal 2016 ad oggi, in ambito NATO USA e Polonia siano quanto mai più vicini fra loro. Ambedue animati da una profonda avversione per la Russia, si sono convinte che l’incremento di forze di terra e di sistemi d’arma lungo il confine più orientale dell’Alleanza sia sufficiente ad essere deterrente per eventuali attacchi.
La Russia, però, è parte dell’Europa. Non dell’UE, certo, ma storicamente e culturalmente è Europa. Noi italiani vi intratteniamo rapporti strettissimi da decenni: nel 1924, con Mussolini al potere, siamo stati il primo Paese a riconoscere l’Urss; nel dopoguerra, con la DC al governo e con l’adesione NATO, scambi commerciali e finanziari sono proseguiti in armonia. Siamo capaci di rapportarci con Mosca perché abbiamo l’esperienza per farlo, a prescindere da certe uscite pubbliche (evitabili) degli ultimi tempi…
I membri fondatori dell’Alleanza, Italia in testa, devono quindi trovare una soluzione che non è lo scontro diretto semmai il ripristino di un equilibrio delle sfere d’influenza sul Continente.
Vero che senza gli USA la NATO non potrebbe esistere, vero anche che l’Europa non può collassare per i sogni di gloria di Washington e per il nazionalismo di Varsavia.