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Polonia, Usa e Baltico: quel sentimento anti-russo di cui presto pagheremo le conseguenze

Marco Petrelli
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Ucraina. Superato il 40° giorno di guerra non si vede ancora una via d’uscita. I colloqui procedono, come procedono anche le incursioni, i combattimenti, le prese di posizione - dure - di Zelensky e le risposte altrettanto al vetriolo di Putin. 

Se Italia e Germania cercano una soluzione, preoccupate per la questione umanitaria ed  energetica, altri paesi punterebbero alla guerra di logoramento: fare dell’Ucraina un’Afghanistan contemporaneo con i russi impegnati fino allo stremo. La storia ricorda che il ritiro afghano precedette di un paio d’anni la caduta dell’Urss. E, forse, Polonia, repubbliche baltiche e Stati Uniti sperano di assistere ad un secondo “miracolo”: il collasso della Russia e la fine di Vladimir Putin. 

Che agli Stati Uniti Putin non piaccia è cosa vecchia. Gli Anni Novanta avevano abituato l’Occidente all’immagine innocua, confusa e debole della Russia di Elcin: il vecchio nemico  ridotto ad una nazione incapace di nuocere e con un leader-marionetta che si presentava ubriaco ai meeting internazionali. Poi, con il nuovo Millennio, il drastico cambio di rotta…

Chiudere la partita con Putin è dunque cosa “vecchia”: Obama lo ha affrontato durante la crisi siriana, sostenendo le forze ribelli anti-Damasco forte della speranza che, cadendo, il regime di Assad avrebbe portato via con sé la presenza di Mosca nel paese mediorientale. Non è andata così: la Siria continua ad essere in guerra ed Assad, pur indebolito, è ancora al potere. Gli Stati Uniti, invece,  si sono macchiati nell’onore e nella credibilità: il premio nobel per la Pace 2015 Barack Obama ha incendiato Libia e Siria senza alla fine costruire quel futuro di speranza e di democrazia che sarebbe dovuto nascere con la fine degli ultimi regimi del socialismo arabo. 

Per polacchi, baltici e svedesi la faccenda è più antica. La Polonia è stata l’apri fila dell’indipendenza dei paesi del Patto di Varsavia dal controllo del Cremlino. E la prima ex repubblica socialista ad aderire alla NATO ed all’Unione Europea, portando così i confini delle due organizzazioni ben oltre la linea dell’Elba. 

In Polonia il sentimento anti-russo è radicato. Nel 1919  l’Armata rossa cercò di invadere il paese, riuscendoci solo venti anni dopo, con l’attacco congiunto russo-tedesco.  Seguirono arresti, fucilazioni, deportazioni fino alla completa conquista tedesca nel '41.

Durante l’insurrezione di Varsavia, inoltre, i sovietici hanno privato i polacchi del loro supporto, intervenendo solo a città distrutta ed a resistenza stroncata. Ne sono seguiti un governo filo-comunista ed ulteriori deportazioni di cittadini in Siberia. 

Quanto ai baltici, essi sono animati dal medesimo sentimento, con la differenza che le dimensioni territoriali, il fatto di essere poco popolati ed il non disporre di forze armate efficienti li porta a considerare Mosca come un pericolo ancora maggiore. Alle valutazioni di carattere difensivo, la russo-fobia baltica si materializza anche in campo culturale e sociale. Malgrado sia parlato dal 30% della popolazione, infatti, il russo non è mai stato riconosciuto come secondo idioma nazionale. Inoltre, nel 2004 una legge ha stabilito che la cittadinanza lettone sarebbe stata estesa ai soli cittadini (ed ai loro discendenti) nati in Lettonia prima dell’invasione sovietica del 1940, costringendo tutti gli altri ad un esame di lingua lettone. Per un breve periodo di tempo la comunità lettone di origine russa è riuscita ad ottenere l’insegnamento del russo nelle scuole ma, già nel 2019, il provvedimento è stato abbandonato. Politiche dunque umilianti ed a tratti discriminatorie, conseguenza di un passato mai completamente somatizzato e di una profonda diffidenza nei confronti del potente vicino.

Vicino che ha avuto forse qualche difficoltà a comprendere cosa vi fosse di democratico nell'impedire ad una parte del popolo di parlare la sua lingua e che, certamente, ha vissuto con apprensione l’ingresso delle tre repubbliche baltiche nella NATO. L'allargamento, poi, ha portato a due passi dai confini russi  unità aeree con  funzione di  monitoraggio e di difesa (Air Policing, ndr) dei confini più orientali dell’Alleanza. 

E’ da allora che è iniziata la “sindrome dell’accerchiato” di Putin: l’Alleanza Atlantica sempre più ad est, con gli sbocchi sul Mar Nero e sul Mar Baltico circondati dai nuovi membri NATO: Bulgaria, Romania a sud; Lettonia, Lituania, Estonia, Polonia a Nord. Nel 2016 la decisione del parlamento svedese di provvedere ad un ammodernamento delle proprie forze armate ha destato le preoccupazioni di Mosca, preoccupata per la sorte dell’exclave di Kaliningrad pezzo di Russia nel territorio dell’UE e terreno di importanti esercitazioni militari quali la celebre “ZAPAD”. 

Al tempo Stoccolma implementava standard e procedure Nato,  partecipando al programma PfP; aveva inoltre già seguito le attività dell’Alleanza nell’ambito di importanti missioni internazionali: Joint Enterprise nei Balcani, ISAF in Afghanistan, Althea in Bosnia Erzegovina. Un avvicinamento interrotto lo scorso mese al fine di stemperare le tensioni con la Russia: la Svezia non entrerà nella NATO. 

L’uscita di scena di Stoccolma ed il rifiuto dell’Ungheria di aderire alle sanzioni, va a beneficio di Varsavia membro orientale meglio armato, meglio equipaggiato e il cui ruolo sta diventando strategico nella crisi ucraina. E non solo per l’accoglienza. In una intervista rilasciata al quotidiano La Repubblica, infatti, il vice premier Jaroslaw Kaczynski ha affermato che il paese sarebbe disposto ad “ospitare” deterrente nucleare sul suo territorio, auspicando altresì la costituzione di un Comando operativo (Joint Force Command – JFC) polacco, l’arrivo di altri soldati statunitensi in Europa e dicendosi convinto, sin dalle prime fasi della guerra, della necessità di una missione di peacekeeping NATO in Ucraina. L’intervista prosegue con una dura presa di posizione contro la politica estera tedesca, specie nelle sue relazioni con il Cremlino. 

Kaczynski confida dunque in una maggiore centralità strategica del fianco orientale NATO nella crisi ucraina, a scapito di paesi occidentali (e fondatori) che cercano di scongiurare l'escalation militare ed i contraccolpi gravissimi sull'economia europea. O, almeno, Berlino sembra essere ancora raziocinante, mentre in Italia pare ormai che tutti - da destra a sinistra - si siano calati l’elmetto in testa. 

E’ presto per dire quale piega prenderà il conflitto: l’esercito russo, dato più volte per spacciato, continua a bombardare ed a mietere vittime. 

Al momento i paesi UE e NATO hanno tre problemi: l’accoglienza di milioni di profughi, le ripercussioni delle sanzioni sull’economia ed i paesi dell’est Europa che spingono sull’acceleratore del confronto, armato, con Putin. Ad ora il canale più sicuro ed al quale dare priorità è quello diplomatico. Poi, in un secondo momento e “a bocce ferme”, dovremmo domandare a noi stessi se, prima di accogliere polacchi e baltici in Europa e nell’Alleanza, non avessimo fatto meglio a sostenere l’esame di Storia dell’Europa orientale, magari un po’ palloso da studiare ma assolutamente necessario per comprendere retaggio ed identità dei popoli che abbiamo “accolto” nelle nostre organizzazioni politiche e militari. E che ci avrebbe fatto capire in tempo pro e contro di quella scelta... 

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