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Taiwan, la sua democrazia è l'antidoto al comunismo

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Marco Respinti
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Il Grand Hotel di Taipei, nel distretto di Zhongshan, mecca dei turisti che sciamano a vedere l’“altra Cina”, non è solo un vistoso edificio di colore rosso acceso in stile maxipagoda che guarda il fiume Keelung dal monte Yuanshan, ampolloso anche per gli standard orientali. È una vera reliquia taiwanese. Qui sorgeva il Grande Santuario shintoista, ricordo del dominio giapponese (non proprio piacevole, in Estremo Oriente) e suo vanto, che però un aereo merci fuori controllo distrusse nell’ottobre 1944. Persa la guerra civile contro i comunisti di Mao Zedong, nel 1949 il generale e capo del partito nazionalista Kuomintang, Chiang kai-shek, riparò qui, a Formosa (come gli spagnoli, sensuali e immaginifici, chiamarono l’isola lussureggiante).

Per celebrare la cultura cinese (e il proprio potere), incaricò l’architetto Yang Cho -Cheng di disegnare un hotel per gli ambasciatori esteri che paresse un palazzo imperiale. Perché Chiang un po’ imperatore si sentiva. Il “suo” Grand Hotel trabocca infatti di draghi, simbolo di fortuna e potere, associati all’imperatore padre -padrone. Ma proprio in questo tempio dell’anticomunismo nazionalista nacque, clandestina, la prima forza di opposizione. Era il 28 settembre 1986. Al culmine del cosiddetto «movimento tengwai» (degli «esterni»), il cartello misto dell’opposizione alla legge marziale decretata da Chiang nel 1949 per colpire i comunisti, in una sala del Grand Hotel venne fondato il Partito Progressista Democratico (PPD).

Chiang era però morto nel 1975 e il regime del Kuomintang aveva i giorni contati. Il 15 luglio 1987 la legge marziale fu abolita e Taiwan si avviò gradualmente alla democrazia. A Taipei ne resta il Green Island White Terror Memorial Park, l’ex prigione ora museo in cui il Kuomintang internò i nemici, che seppur in Cina i suoi nemici ne abbiano fatte di peggio mette davvero i brividi, e la controversa storia proprio del Kuomintang, il quale ha il merito di avere salvato un pezzo di Cina dal pericolo rosso ma che questo merito lo ha mescolato a molti altri demeriti.

 

 

 

L’ERA DEL TERRORE

Della nuova stagione democratica proprio il PPD è l’asse portante. Governa, esprime il presidente Tsai Ing-wen, nota avversaria di Pechino e forse cripto-lesbica, e Yu Shyi-kun, il presidente del ramo legislativo del parlamento tripartito di Taipei, lo Yuan. Gli altri due sono l’Assemblea nazionale dei grandi elettori del capo di Stato/governo (un resto dell’era Kuomintang che è venuto contando sempre meno e che nel 2005 è stato sostanzialmente abolito) e lo Yuan di controllo, sogno di tutte le democrazie: controlla infatti i controllori. Ogni tanto però fa cilecca e scoppiano i bubboni, come certi dossier ancora lasciati irrisolti della “transitional justice”. Questa dovrebbe infatti riparare ai torti dell’era Kuomintang, ma a volte ne crea di nuovi. È il caso clamoroso dei Tai Ji Men, un nuovo movimento religioso che dal 1996 viene tormentato con un’accusa di evasione fiscale dimostrata falsa da ogni livello della giustizia taiwanese, ma che alcuni burocrati continuano invece a vessare.

Lo Yu Shyi-kun presidente dello Yuan legislativo ama salmodiare, con una certa bravura, poesie cinesi novecentesche e mescere whiskey taiwanese (brand in crescita come quello giapponese), soprattutto il Kavalan, un «single malt». Non perché sia il più pubblicizzato, ma perché distillato nella contea di Yilan, dove lui è nato 75 anni fa. L’ho incontrato diverse volte, in pubblico e no, e per essere un progressista è di un anticomunismo davvero accanito.

Il suo mantra è diventato lo slogan con cui Taiwan prova a emerge dallo strapotere di Pechino: «Taiwan è un faro di democrazia». Vero, soprattutto perché, quanto a democrazia, per miglia e miglia tutto attorno a Formosa è buio fitto, ma ciò non impedisce al faro, ogni tanto, di sfarfallare. La democrazia, cioè la libertà concreta, è fatta così: imperfetta e però migliore di tutti i perfettismi ideocratici, tipo quello totalitario della Cina rossa.

LA SFIDA ISTITUZIONALE

Di essere una democrazia piena Taiwan continua, comunque, a dover convincere sé e gli altri Paesi democratici. Dal 1971 Pechino l’ha resa un pariah, espellendola dalle Nazioni Unite. Oggi l’ONU fa spesso quel che comanda la Cina, come ha appena azzardato, ma con dovizia di ragionamenti e dati, Chris Horton, giornalista di stanza a Taipei, su The China Project, che è una riserva online di informazioni fuori dal coro. E quindi Taiwan cerca geometrie, alleanza e strategie alternative. Sa che il suo tempo stringe. L’aria che tira a Taipei, ogni tanto scalmanata come i tifoni, riporta che Pechino potrebbe impiegare 5, forse 6 anni per farla finita. Esagerano, ma prima di dare loro torto bisognerebbe vivere lì tutti i giorni fra sconfinamenti di velivoli militari, esercitazioni di navi da guerra, minacce aperte ogni qualvolta un politico taiwanese pensa con la propria testa. La paura c’è, insomma, ma è gestita con disinvoltura e fatalismo orientali. Si dice, ma non si vede. A Taiwan ripetono entusiasti, soprattutto a chi vorrebbero avere in aiuto, che l’ora di Taiwan è adesso. La pensa così anche Pechino, ma intende un’altra cosa. 

 

 

 

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