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I contestatori pro Hamas dei campus americani pretendono cibo (vegano)

Corrado Ocone
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È durata meno di un giorno l’occupazione violenta a New York di Hamilton Hall da parte di manifestanti anti -israeliani e fiancheggiatori di Hamas. Chiamata dalle autorità amministrative, la polizia ha sgomberato l’importante edificio della Columbia University, un luogo altamente simbolico in quanto già sede nel 1968 delle proteste studentesche contro la guerra in Vietnam.

L’occupazione è stata la punta di iceberg di una serie di proteste che da qualche mese stanno interessando gli atenei americani (e non solo), diffusesi ormai a macchia d’olio dalle università di élite a quelle meno blasonate, dall’Est all’Ovest del Paese. Tanto che molti commentatori si sono posti la domanda se stiamo assistendo ad una sorta di “nuovo Sessantotto”, cioè ad una diffusa rivolta generazionale destinata a cambiare in ultimi analisi gli stessi equilibri di potere delle nostre società. Difficile dirlo. E sicuramente prematuro. Quel che è certo è però che le differenze con il vecchio movimento sono non poche, e certo non in positivo. Di quella spinta libertaria, spesso irriflessa e poco razionale, che fu del movimento in America negli anni Sessanta, rimane ben poco. In ultima analisi, ciò che nel Sessantotto era messo in discussione era il “principio d’autorità”, cioè la rigida struttura gerarchica che regolava, con i suoi pregi (tanti) e i suoi difetti (non di meno ma emendabili), la vita universitaria e in genere la trasmissione del sapere.

Quella struttura veniva vista dai protagonisti delle proteste come un riflesso di ciò che accadeva nell’intera società, di cui d’altronde i docenti rappresentavano una parte non irrilevante della classe dirigente. Ovviamente le forme che la protesta assunse fu, anche in quel caso, condita con richieste politiche specifiche (in primo luogo il ritiro dell’America dal Vietnam) e in genere da tanta confusione mentale ed ideologica. Ispirati dalle idee di alcuni “maestri”, fra cui anche qualche docente “eretico” e accademicamente isolato (ad esempio Herbert Marcuse), il movimento si incontrò con gli sviluppi eterodossi del marxismo, in verità non meno intolleranti della versione originale. Furono allora elevati a Stati guida la Cina e tutti i Paesi che sperimentavano un marxismo che si immaginava ingenuamente diverso da quello fallimentare dell’Unione Sovietica (la quale proprio in quell’anno invadeva con i suoi cingolati Praga per ristabilirvi l’ordine infranto dell’ortodossia).

Spesso i leader del Sessantotto, abbandonati i conati rivoluzionari, divennero, col passare degli anni, i membri della classe dirigente occidentale. Essi si integrarono ben presto nel sistema liberal-democratico e capitalistico che volevano abbattere divenendone uno degli assi portanti. Se sia stato più il nostro sistema, in sé duttile ed “includente” per definizione, a marcare loro, oppure loro a cambiare la società, con idee frattanto approdate verso i nuovi lidi del progressismo mondiale, è difficile dirlo. Fatto sta che mai come oggi l’Occidente, anche nelle sue classi dirigenti, appare diviso, percorso da una “guerra culturale” fra chi vuole conservare e arricchire le sue libertà e chi contesta in nome di un’ideologia progressista basata sul senso di colpa.

Un’ideologia, fra l’altro, molto superficiale (e manichea) nelle sue analisi, che spesso si risolve in richieste parodistiche e tragicomiche. Il caso della studentessa che si fa portavoce degli occupanti e, definendosi una rivoluzionaria, chiede per loro alimenti gastronomically correct (cibi vegani e assolutamente non ebraici) per continuare l’occupazione è emblematico.
Quel che si può dire con sicurezza è che le università oggi non sono più, come allora, un riflesso della società, ma un luogo sostanzialmente in mano ad una delle due parti in lotta. In sostanza, si è realizzata una saldatura fra gli studenti movimentisti e un corpo docente che in vario modo fiancheggia, simpatizza o strizza loro gli occhi e ne condivide le idee.

Una generale “chiusura della mente americana”, per dirla con le parole di Allan Bloom, ha portato a una crisi non solo della trasmissione del sapere, ma anche, più in generale, dell’idea di cultura su cui si è edificata la nostra società e di cui le università rappresentavano il luogo di elaborazione e sistemazione. Né bisogna dimenticare che fra i finanziatori, i docenti e gli allievi delle migliori università americane ci sono rappresentanti di Stati e fondazioni facenti capo a regimi illiberali, culturalmente nemici dell’Occidente, interessati a decostruirne le basi ideologiche.

Sempre alla Columbia, qualche settimana fa, ben trecento professori erano intervenuti con un appello contro chi, fra i vertici universitari, aveva provato a contenere le proteste e le violenze studentesche in nome della didattica. Quei docenti, in una paradossale capovolgimento della realtà dei fatti, avevano parlato di repressione e restrizione delle libertà accademiche. Mentre quel che veniva conculcato platealmente era il diritto a frequentare i corsi da parte degli studenti. Fra l’altro, si era dovuti ritornare, come ai tempi della pandemia, alle lezioni online. In definitiva, se nel Sessantotto ci si illudeva di cambiare il nostro mondo, oggi l’unico scopo di chi protesta sembra essere quello di distruggerlo. Un esito nichilistico dell’idea di rivoluzione che un pensatore come Augusto Del Noce aveva anticipato nei suoi scritti e nelle sue riflessioni.

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