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Gli israeliani ammirano i nemici e rispettano le regole che gli altri violano

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Giovanni Longoni
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Yahya Sinwar? Un genio. La buonanima di Qasem Soleimani? Una mente superiore. Gli iraniani? Gente sofisticata. La cosa che colpisce nel parlare dei loro nemici con gli israeliani è che il disgusto, la delusione o la voglia di giustizia si combinano con un singolare rispetto per quanto ha saputo fare l’avversario. Nell’élite si può supporre sia un atteggiamento frutto anche di affettazione ma che ci sia sotto qualcosa di più profondo lo dimostra il fatto che la pensino così anche semplici cittadini travolti dalla guerra.

Yahya Sinwar in cella ha imparato l’ebraico che parla fluentemente e con ricercatezza, ci dice Ehud Yaari, commentatore di cose arabe per Channel 12. «Quando lo intervistai, il boss di Gaza si vantava di parlare la nostra lingua meglio dei secondini che lo controllavano. Lui, che è il vero leader di Hamas, non quel burattino di Haniyeh; ha studiato a fondo l’ebraismo e la società israeliana. Sa tutto di noi», afferma Yaari. Sinwar, 61 anni, ne ha trascorsi 22 in una prigione dello Stato ebraico, leggendo, studiando, traducendo in arabo i libri di memorie dei capi dell’antiterrorismo israeliano. Preparandosi insomma a quello che stiamo vivendo.

Sulla stessa lunghezza d’onda di Ehud Yaari troviamo gli ufficiali della 98ª divisione paracadutisti, quella che sta combattendo nei tunnel di Gaza. Ammettono che il 7 ottobre è stata una sconfitta soprattutto sul piano della «battaglia della conoscenza». «Il nemico impara velocemente, noi siamo rimasti indietro». E poi ci sono i tunnel. Un’opera mastodontica che ha stupito i soldati che ci sono entrati. Sapevamo delle gallerie, dicono, pensavamo servissero per il contrabbando, invece...

«Invece è una città sotterranea, tutti i cunicoli sono collegati fra loro, ci sono depositi per munizioni e vettovaglie, bagni, gabbie per gli ostaggi. Una rete vasta e interconnessa. In una galleria siamo entrati all’una di notte e siamo usciti da un ingresso diverso dopo sei ore di marcia e sparatorie». Credo sia la prima volta nella guerra moderna che si combatte così a lungo sottoterra, dice un altro ufficiale. Non è così (si pensi agli ultimi giorni dell’Azovstal). L’unicità di questo conflitto è innegabile ma riguarda altro.

«Stiamo contravvenendo a tutti i dettami della guerra moderna», sostiene lo stesso ufficiale della 98ª. «I generali dei vostri Paesi sarebbero scandalizzati da come operiamo. Diamo al nemico tanto vantaggio». Israele come gli Stati Uniti e pochi altri Paesi ha una magistratura militare che non si occupa solo di processare i soldati che violano le leggi.

Accanto alla Procura c’è una Avvocatura. Ogni comandante di unità è obbligato a sottoporre all’avvocato militare il piano delle operazioni. Il legale dice: questo lo puoi fare, questo no, è contrario alle leggi israeliane o internazionali. Il parere del legale è vincolante, per questo, ammette l’avvocato militare con cui Libero ha potuto parlare in condizioni di anonimato, non siamo molto popolari fra i nostri commilitoni operativi. E aggiunge: comunque la si veda, a me i morti a Gaza paiono troppi.

Inoltre, è prassi dell’Avvocatura quella di considerare Hamas il governo de facto della Striscia di Gaza. Pertanto, i terroristi vengono trattati come se fossero a tutti gli effetti un esercito regolare al quale si applicano le leggi di guerra e le convenzioni internazionali. È per questo che gli israeliani si sentono traditi da tutti, in particolare dal mondo occidentale di cui ritengono di essere parte integrante. Hanno un sistema giudiziario che concede le piu ampie garanzie. E invece la giustizia internazionale processa loro. Peggio ancora, i tribunali internazionali dell’Aja, Corte internazionale di giustizia e Corte penale internazionale, sono entrambi connessi all’Onu che qui significa Unrwa e le sue collusioni con Hamas.

Non sopportano piu, gli israeliani, nemmeno l’Ue e le ong umanitarie. «La Croce Rossa internazionale», dice Louis Har, uno dei pochi ostaggi liberati dalle IDF con una azione militare, «si rifiuta di aiutarci». «Quando mi hanno liberato dall’ospedale di Khan Younis», prosegue, «i soldati hanno trovato un pacco di medicinali spedito dai miei famigliari alla Croce Rossa che nessuno si era preso la briga di consegnarmi».

Infine c’è l’antipatia diffusa per i governi dell’Europa occidentale e soprattutto per i giornalisti. «I’m a journalist», spiego all’impiegato che controlla i passaporti all’aeroporto Ben Gurion. «Itonai...», ribatte in ebraico con disprezzo. «You may go». Ma non so dove volesse mandarmi realmente.

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