Sono lontani i tempi in cui re, imperatori, potenti e illustri famiglie gettavano la loro ombra lunga sui Conclavi, costringendo i poveri cardinali elettori a starsene chiusi per settimane, se non per mesi o addirittura anni finché non finivano per cedere alle pressioni degli uni o degli altri. Storicamente diversi Pontefici sono stati eletti con i voti – indiretti – di questi influenti “agenti esterni”. Da molto tempo non è più così, fortunatamente, ma la scelta del prossimo Pontefice si muove, come sempre, tra fede, strategia e influenze geopolitiche, che gli stessi porporati tengono in considerazione, pur mossi dallo Spirito, non potendo ignorare gli equilibri internazionali. Oggi più che mai minacciati da evidenti criticità.
Si è detto e scritto molto sulle reali o presunte influenze esercitate dagli Usa, in primis dal presidente Donald Trump che ha ironizzato: «Mi piacerebbe essere papa. Sarebbe la mia prima scelta», rispondendo a chi gli chiedeva se aveva preferenze per il prossimo pontefice. «Non ho preferenze» ha aggiunto, precisando che c’è un cardinale a New York che può fare il lavoro». Il riferimento sembra al cardinale Timothy Dolan. Un conservatore moderato, che aveva giocato già un ruolo di kingmaker nel precedente conclave.
Segretario di Stato vaticano con papa Francesco, Pietro Parolin viene definito come una figura di garanzia e mediazione, un centro di democristiana memoria, nella sua accezione migliore. È un canonista, il che, soprattutto di questi tempi, rappresenta un valore aggiunto. Può essere gradito ad un ampio spettro politico, nazional e internazionale. Nessuno può dubitare della forte vocazione pastorale del cardinale Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, universalmente collocato sul fronte progressista e saldamente supportato dalla Comunità di Sant’Egidio, dunque forte anche di una rete di rapporti e relazioni ramificati e globali com'è quella della Comunità. Alla domanda se il cardinal Zuppi sia un possibile Papa, «è un uomo di pace e non può non piacerci», ha risposto l’ex presidente della Camera Laura Boldrini.
Il cardinale ungherese Peter Erdole potrebbe essere gradito a Trump, per la sua linea conservatrice, ed è molto apprezzato nell’Est europeo. Mentre il francese Jean-Marc Aveline, teologo dialogante e attento al multiculturalismo, in una ideale linea in continuità con l’apertura pastorale di Francesco, è un nome che potrebbe piacere al presidente Emmanuel Macron. Il filippino Luis Antonio Tagle e già prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione dei Popoli, rappresenta la possibile apertura definitiva della Chiesa verso l’Asia. È un volto noto e apprezzato anche in Cina, e secondo alcuni osservatori potrebbe risultare accettabile persino a Xi Jinping. È sicuramente il più social tra i papabili.
Un discorso a parte meritano i cardinali africani. Tra di loro ci sono alcune tra le personalità più forti e carismatiche in ambito ecclesiale, come il cardinale Robert Sarah, originario della Guinea, da tempo il punto di riferimento del fronte tradizionalista (e una parte dell’episcopato statunitense), anche per le sue battaglie contro il relativismo culturale, le unioni civili e l’islamismo radicale. E come Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa (Repubblica democratica del Congo), figura chiave del processo di pacificazione del suo Paese, coraggioso e capace di prese di posizioni scomode. Ma bisogna ammettere che la Chiesa africana, pur essendo in crescita, motivata e in grado di esprimere autentici outsider, non è presa troppo in considerazione dalle grandi manovre nello scacchiere internazionale. Non ancora.