Catapultato da Idlib a Damasco e, la settimana scorsa, a Riad, il presidente ad interim della Siria Ahmad al-Sharaa (già Abu Mohammad al-Jolani, il nome di battaglia che usava quando era a capo dell’organizzazione terroristica Tahrir al-Sham) ha ricevuto grandi complimenti e «un’opportunità di grandezza» grazie alla revoca delle sanzioni statunitensi. C’è già un piano d’azione: si comincerà con una deroga temporanea ad alcune restrizioni, alcune delle quali in vigore dal 1979, così da consentire ai dollari di irrorare Damasco e da permettere ad altri Stati di finanziare la ricostruzione senza il timore che Washington storca il naso (l’Unione Europea, infatti, ha deciso martedì di revocare tutte le sanzioni ancora in vigore). Solo con il tempo, i progressi e il consenso del Congresso, verranno abrogate definitivamente. Ad oggi «è prematuro», ha chiarito il Segretario di Stato Marco Rubio. E infatti, dal punto di vista diplomatico, ancora non si è accennato alla riapertura delle ambasciate: quella Usa a Damasco venne chiusa nel 2012, quella siriana a Washington nel 2014.
Sono passati 25 anni dall’ultima volta che un presidente americano ha incontrato un leader siriano: era il 2000 e per un paio d’ore, a Ginevra, due sedie vennero occupate da Bill Clinton e Hafez al-Assad. L’arabo voleva che Israele rinunciasse alle alture del Golan, l’americano sperava in una certa flessibilità. «Assad preferirebbe morire piuttosto che non ottenere il ritiro completo», disse un funzionario siriano. Cinque mesi più tardi il figlio Bashar gli succedette alla guida del regime. Un quarto di secolo dopo, Trump è consapevole che in Medio Oriente è più efficace esportare soldi piuttosto che la democrazia. Soldi di cui al-Sharaa ha tremendamente bisogno: dopo quasi 14 anni di guerra civile, attacchi con armi chimiche, incubazione, ascesa e caduta dell’Isis, oltre mezzo milione di vittime, il Paese è distrutto e diviso. Dall’8 dicembre scorso, data della caduta del regime di Assad, 1,87 milioni di cittadini, tra sfollati interni e rifugiati, sono rientrati nelle proprie case. Manca l’accesso a elettricità, acqua potabile, assistenza sanitaria. Secondo le Nazioni Unite, più del 90% della popolazione vive in povertà. L’economia è in bancarotta, il commercio piange. Il taglio più alto della moneta è di 5mila lire ed equivale a 38 centesimi di dollaro (il governo siriano, inoltre, non ha mai stampato la propria moneta: se ne occupa, dietro compenso, la Russia). Se Damasco riuscisse a rispondere alle esigenze di sicurezza dell’America nella regione, allontanandosi da Russia e Iran, per Washington sarebbe «un trionfo», ha scritto National Review.
Sulla lista, pubblicata sui social dalla portavoce della Casa Bianca Karoline Leavitt, ci sono cinque punti: la firma gli Accordi di Abramo con Israele (e secondo l’emittente israeliana Channel 12 la settimana scorsa, in Azerbaigian, si è tenuto un colloquio tra il capo della Direzione delle Operazioni delle Forze di difesa israeliane, Oded Basyuk, e funzionari siriani e turchi: Gerusalemme sarebbe aperta a un accordo sui confini e alla normalizzazione delle relazioni), l’espulsione dei terroristi, anche palestinesi, la collaborazione con gli Usa per prevenire la rinascita dell’Isis, la responsabilità per i centri di detenzione dell’Isis nel nord-est della Siria. Fino alla fine di dicembre, il governo degli Stati Uniti era disposto a pagare dieci milioni di dollari per avere informazioni sulla posizione di al-Sharaa, ancora sulla lista dei “terroristi globali”.
Adesso sembra l’uomo giusto per farsi custode degli interessi occidentali. Sul fronte interno dovrà essere in grado di gestire le fratture che segnano i rapporti tra arabi e curdi e tra sunniti e alauiti e la violenza settaria post-Assad, che si sta acuendo: «A Homs e nelle zone costiere a maggioranza alauita, la giustizia sommaria persiste, alimentata in parte dai sunniti», scrive l’Economist. I tentativi di unificare le innumerevoli milizie siriane in un neonato esercito nazionale sono, per ora, falliti. Le violenze contro cristiani e drusi continuano, e sono state segnalate atrocità contro le donne per aver violato i codici islamici. Rubio ha già dato l’allarme: «Il Paese potrebbe trovarsi a poche settimane dal potenziale collasso e da una guerra civile su vasta scala di proporzioni epiche». Ma, in una nazione frammentata e in macerie, un costruttore, Trump, ha instillato la possibilità di un cantiere.