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Israele, Iran, Trump: le verità segrete dietro all'attacco

di Daniele Capezzone lunedì 16 giugno 2025

3' di lettura

Non lo sapremo mai, o almeno non lo sapremo troppo presto né troppo facilmente: nell’intricatissima partita di scacchi e missili che vede contrapposti Israele e Iran, com’è andata davvero tra Bibi Netanyahu e Donald Trump?

Una prima ipotesi è che il primo abbia forzato la mano al secondo, oppure variante - che abbia addirittura agito senza e contro la sua volontà. Secondo questa scuola di pensiero, il premier israeliano non solo non avrebbe mai creduto a una fruttuosa possibilità di dialogo tra Washington e Teheran sul dossier nucleare, ma avrebbe manifestato a Trump un suo netto dissenso sul tema, segnalandogli il rischio di cadere - pur da una prospettiva opposta nel medesimo errore commesso a due riprese da Barack Obama e Joe Biden, e cioè prestar fede alla inesistente buona volontà degli ayatollah. Sempre secondo queste ricostruzioni, si spiegherebbe così la mancata conferenza stampa congiunta del 7 aprile scorso dopo la visita di Netanyahu a Trump alla Casa Bianca: con il primo irritatissimo per la trattativa con Teheran preannunciatagli dal secondo, e il secondo piuttosto deciso nel frenare i piani di attacco del primo contro l’Iran.

Una seconda ipotesi è che invece i due leader, in particolare negli ultimi giorni, abbiano agito in contatto costante e con intesa pressoché piena, dividendosi i ruoli del “poliziotto cattivo” e del “poliziotto buono”. È ovvio che Trump e il suo segretario di Stato Marco Rubio si siano formalmente e pubblicamente chiamati fuori dalla condivisione della scelta israeliana di attacco, ma è altrettanto chiaro e innegabile per un verso l’aiuto logistico e militare fornito dagli americani rispetto alla difesa di Israele, e per altro verso il tenore dei tweet di Trump post-attacco, esplicitamente a supporto di Gerusalemme. In particolare, i riferimenti trumpiani alla possibilità di attacchi ancora peggiori a danno degli iraniani militano a favore di questa tesi.

Una terza chiave di lettura è una variante della seconda. Sì certo, Trump avrebbe scelto di convergere con Netanyahu, ma lo avrebbe fatto solo a posteriori, accettando la logica del fatto compiuto. Come dire: una volta avvenuto l’attacco israeliano, sarebbe stato impensabile per il Presidente americano rimanere in mezzo al guado.
Avrebbe magari preferito che questa accelerazione fosse evitata: ma, una volta partito l’attacco israeliano e una volta scattata la controffensiva della teocrazia islamista, la scelta di campo si è resa inevitabile quanto netta.

E c’è infine una quarta ipotesi, alla quale è consolante affidarsi, o attraverso cui per lo meno a chi scrive piace ricavare una possibile razionalità e saggezza di tutta la storia. E cioè che, al di là dell’imperscrutabile chimica personale tra i due leader, le strategie di Trump e Netanyahu si stiano rivelando complementari tra loro. Trump vorrebbe un “deal” con tutti, anche con i peggiori (perfino con il regime di Teheran, appunto), ma non sempre sembra in grado di farci capire quale sia il suo “piano b” nel caso in cui un interlocutore non voglia raggiungere alcun accordo. Ecco: Netanyahu ha spettacolarmente quanto duramente mostrato quale sia il “piano b”: se l’intesa non si concretizza, deve scattare l’uso della forza. La complementarietà sta tutta qui: da un lato, lo sforzo negoziale per evitare l’uso della forza; dall’altro lato, l’uso della forza per porre rimedio al rifiuto negoziale da parte del soggetto più pericoloso.

Del resto, quanti giorni aveva evocato Trump per l’intesa con Teheran? Sessanta. E quando è scattato l’attacco israeliano? Il sessantunesimo giorno. Tutto torna.
Ed è l’argomento che rende preferibile in assoluto questa quarta ipotesi: di tutta evidenza, un’eventualità che è stata largamente sottovalutata dagli ayatollah.

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