Siccome Bannon odia Elon Musk, allora è automaticamente diventato “buono” per il mainstream italiano. E siccome su di lui grava comunque un’ombra di negatività, intervistarlo fa bene al “racconto” perché alimenta l’idea di un Trump condizionato da figure oscure e prive di equilibrio.
Il messaggio è: lo vedi quant’è pazzo Trump? E lo vedi quant’è pazzo chilo consiglia? Piccolo dettaglio: Bannon frequenta il giro trumpista, e di tanto in tanto vede pure Trump, ma ormai piuttosto alla larga, nel senso che da anni non è più né il suo consigliere né tantomeno il suo stratega. Semmai, è lui- Bannon- a cercare un po’ disperatamente il fascio di luce, l’occhio di bue che lo illumini in primo piano, una volta attaccando Musk (che lo ha efficacemente definito «un ritardato comunista»), un’altra volta criticando il presidente, un’altra volta ancora riproponendosi come gran suggeritore della Casa Bianca. In ogni caso, l’obiettivo costante è dare l’idea di essere ancora il “mastermind” della situazione, il cervellone diabolico che fa accadere le cose, che le muove, che le sposta.
E proprio qui- vengo alle mie confessioni - sta una delle due cose che in lui non mi hanno mai convinto. La prima è esattamente questo metodo: se vuoi essere consigliere del principe, allora non ti esibisci, ti mantieni riservato, non straparli. Sfuggi alle telecamere, ai taccuini e ai microfoni: e invece lui ci si butta sopra. La seconda è di merito: l’ho sempre considerato una specie di «comunista di destra», di antisistema casinista, lontanissimo sia dai canoni liberali classici sia da quelli di un conservatorismo moderno. È uno di quelli che amano il caos, il populismo come agitazione dei problemi (guai a risolverli: finirebbe il circo), la rivolta senza uno sbocco costruttivo. Magari mi sbaglio, eh: ma la sensazione è questa. Mettiamola così: se fosse un cantante, canterebbe sempre uno o due toni sopra: ama l’eccesso, gode nel creare stupore, si compiace delle sue parole forti.
Ma adesso - per le strambe ragioni spiegate prima - è ascoltato con rispetto e perfino con reverenza. Basta che sparacchi contro Musk, o che dia l’idea che Trump - se sta per fare una cosa giusta - si stia invece sbagliando e confondendo. Con questo spirito è ormai ricercatissimo dai nostri media. Peccato che siano gli stessi giornali e gli stessi protagonisti della comunicazione che ridacchiavano di lui, che lo irridevano.
Ricordo un’indimenticabile giornata di fine maggio 2018, quando Bannon tenne in un teatro del centro di Roma una conferenza. Ero in platea: e lo “spettacolo” era proprio il pubblico della solita Roma potentona che lo trattava con le risatine che si riservano allo scemo del villaggio. Il tono era: “Bannon, facce Tarzan!”. E naturalmente Bannon non si sottraeva, interpretando se stesso nella versione più pulp.
Attenzione però. All’epoca, altro che interviste sul Corrierone. Essendo vicino a Trump (pur tra allontanamenti e liti saltuarie), era in pieno svolgimento una “character assassination” contro di lui, al grido di “è il guru dell’estrema destra, è il padrino dei neofascisti, è pure un lettore di Evola...”. Praticamente il demonio. Poi, per un brevissimo periodo, in base alle rivelazioni di un libro (Fire and fury di Michael Wolff), erano emersi dissapori con Trump, e così per qualche settimana, improvvisamente, agli occhi della sinistra mondiale Bannon ridiventò un intellettuale autorevole. Ma la parentesi durò poco: i soliti “espertoni” tornarono rapidamente al disprezzo di prima.
Dovevate vedere lo spettacolo in sala in quella giornata di calda primavera del 2018: con alcune meritorie eccezioni, un pubblico di giornalisti, presunti esperti, “vedove” di Obama e di Hillary Clinton, in larga misura gente che non aveva capito Brexit (stavano con il “Remain”), non avevano capito Trump (avevano fatto le majorettes della campagna Clinton), non avevano capito praticamente nulla dell’aria che tirava.
Eppure, “forti” di tutte queste incomprensioni, era tutto uno scuotimento di teste mentre Bannon parlava, una galleria di sorrisini e smorfiette per mettere a verbale il proprio dissenso.
Sono passati sette anni, e tutto è improvvisamente capovolto: le frasi di Bannon vengono sollecitate e poi interpretate in modo sacrale come se fossero una specie di Talmud 2.0 per decodificare il trumpismo. Niente da fare: le nostre élites non ne azzeccano una. Ma almeno ci fanno divertire. Involontariamente, però.