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Le foto (fake) che influenzano le guerre

di Annalisa Terranova lunedì 28 luglio 2025

3' di lettura

Forse è ancora vero che la fotografia è l’occhio della storia. Perché l’immagine, al contrario di un video anche breve, resta impressa nella mente e diventa iconica, si rapporta per analogia a un contesto. E se il contesto è di guerra suscita emozioni, condanna, disgusto. Le foto dei bimbi di Gaza piangenti, denutriti, feriti, sono l’arma narrativa con cui i terroristi di Hamas stanno portando l’opinione pubblica dalla loro parte. Tanti hanno visto e rilanciato la foto del piccolo palestinese Osama scheletrico, pochi quella di Osama com’è adesso, curato in un ospedale italiano. Se ne è discusso e se ne continuerà a discutere. Ma nelle guerre accade proprio questo: si mette in atto la psy op, l’operazione psicologica che consiste nell’uso pianificato della comunicazione allo scopo di influenzare atteggiamenti e comportamenti dell’opinione pubblica. Lo diceva già Sun Tzu nel suo L’arte della guerra: «Il non plus ultra è deprimere il Nemico, senza trovarsi nella condizione di dover combattere».

Eddie Adams, fotografo dell’Associated press, nel 1965 è inviato in Vietnam. Le sue foto dal fronte sono pubblicate sulle copertine dei più prestigiosi periodici internazionali. La sua immagine più famosa, l’esecuzione di un Vietcong, gli fa conquistare nel 1969 il Premio Pulitzer. Adams in un’intervista disse: «Il generale ha ucciso il Vietcong; io ho ucciso il generale con la mia macchina fotografica. Le fotografie rappresentano l’arma più potente che esista al mondo. La gente crede in loro. Male fotografie possono anche mentire, pur senza manipolazione. In fondo, non sono che mezze verità». Ne fa fede il dibattito sulla famosa foto di Robert Capa del miliziano morente durante la guerra di Spagna. Pubblicata nel settembre del 1936, coglie l’attimo in cui una pallottola ferisce a morte l’uomo. Troppo perfetta per essere vera. Foto tuttavia verosimile, divenne simbolica per la sua carica emotiva. Anche se c’è chi mette in dubbio che la foto sia di Capa, ma sarebbe stata secondo alcuni scattata da Gerda Taro, che viaggiava con lui in Andalusia.

Bella e evocativa anche una delle immagini simbolo della Guerra del Kosovo, quella scattata da Georges Mérillon, fotografo dell’agenzia Gamma, nel gennaio del 1990. Ritrae un giovane kosovaro caduto di 28 anni, coperto da un lenzuolo. Tutto attorno donne piangenti e disperate. Lo scatto fu premiato come foto dell’anno dal World Press Photo 1990. Ricorda una deposizione di Cristo, con giochi di luce che rimandano a un’atmosfera caravaggesca.

In molti ricorderanno poi il cormorano ricoperto di catrame, celebre foto della prima Guerra del Golfo. L’uccello appare disperato per non poter più spiccare il volo. Metafora della distruttiva crudeltà della guerra. Il Corriere della Sera demolì quel commovente scatto – nonostante gli autori siano insorti asserendone la veridicità in un articolo riportato da Fabio Andriola nel suo libro La lunga notte dell’informazione. «Due scienziati francesi – vi si legge guardano con una compassione diversa il piccolo cormorano che agonizza nel petrolio. Le loro informazioni vanno oltre le lacrime. In gennaio nessun cormorano abita questo mare. Un giornalista di Libération va a chiederlo alla troupe Cnn che si trova a Khafji, città saudita al confine col Kuwait invaso. La troupe cade dal cielo: non ha filmato nessun cormorano. Il giornalista insiste mille chilometri più giù, dove la marea nera non è arrivata. E a Ryad qualcuno parla: sono andati allo zoo, hanno preso qualcosa che assomiglia a un cormorano, tre barili di greggio sul bagnasciuga ed è nata l’immagine che strazia il mondo».

Le foto di guerra documentano, commuovono, denunciano. Costruiscono narrazione pietose o mostrificanti. Il fotografo si fa storiografo come nel caso della modella e fotoreporter americana Lee Miller, che riprese con la sua Rolleiflex le macabre scene di Dachau e Buchenwald. Ma non è in quell’album degli orrori la sua foto più famosa. A Monaco infatti realizzò il celebre autoritratto nella vasca da bagno di Hitler, dove appare intenta a lavarsi, in primo piano gli scarponi sporchi di fango depositati sul pavimento. Più tardi raccontò così quell’esperienza: «Ho scattato qualche foto del posto e ho anche dormito bene nel letto di Hitler. Ho persino lavato la sporcizia di Dachau nella sua vasca».

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