Andare dove non era America, per capire davvero l’America. Un ossimoro, un contorcimento del senso ovunque, tranne in quella nazione (“indispensabile”, dice il mito, e la cronaca anche di queste ore pare confermare) costruita sulla Frontiera. Meglio, costruita come Frontiera: come perenne superamento, metro per metro contro la sentenza della natura (e a volte degli indiani), in un lunghissimo, infinito, libertario atto di ubris. Deadwood (South Dakota, oggi capoluogo della contea di Lawrence) era Frontiera al quadrato: a rigore, non era nemmeno territorio degli Stati Uniti, era un insediamento illegale sulle Black Hills, colline nere in serie che saldano South Dakota e Wyoming, allora lasciate alle tribù Sioux. Una spedizione condotta dal generale Custer (che si infilò da quelle parti nella trappola del destino, il Little Bighorn non è lontano) vi scoprì l’oro, e fu corsa cieca e selvaggia. All’oro, a un’esistenza impensata, a una nuova aurora, a un’ultima mano vincente di poker. Secondo alcuni studiosi di Far West (sissignori, il West è una cosa serissima, è la salvezza occidentale dell’Occidente) il più riuscito esperimento di anarco-capitalismo della storia umana.
All’inizio senza legge, senza codici, solo individui corpo a corpo con la fortuna, e spesso tra di loro. La legge arriva dopo, quando a Deadwood viene ucciso in un saloon con un colpo alla nuca (di fronte era sconsigliabile provarci) Wild Bill Hickock, la quintessenza del pistolero western. Oggi, nella Main Street di Deadwood ricostruita dopo una serie di incendi sul calco di quella tardo- ottocentesca, due locali rivendicano di essere il mitico Saloon N. 10, il luogo dove lo sconosciuto stanco di essere tale Jack McCall esplose i colpi alle spalle di Wild Bill. Sono quasi di fronte, alla stessa altezza, ognuno ostenta l’insegna epica, e a un europeo mediamente acculturato può apparire una contraddizione un po’ cialtrona. Ma sbaglierebbe di grosso perché, come fa dire John Ford a un direttore di giornale ne “L’Uomo che uccise Liberty Valance”: «Qui siamo nel West, dove se la leggenda incontra la realtà, vince la leggenda”». A molti non piacerà, certamente non piace agli intellettuali nostrani che edulcorano l’America nei cocktail di Manhattan o la incastrano nei capannoni della Silicon Valley, ma quest’America decostruita, cristallizzata nella reiterazione di sé e proprio per questa apertissima al visitatore (in uno dei due Saloon incriminati può capitare che il cantante country interrompa l’esibizione solo per salutare il forestiero), ha le idee chiarissime. Anche politicamente: Deadwood, la gemella meno reclamizzata Hill City, qualsiasi scampolo urbano delle Black Hills, sono naturaliter repubblicane, per ovvietà e quasi per decoro esistenziale.
E allora, se ti aggiri tra i negozi che non di rado sono la prosecuzione, o i retro, dei saloon, la t-shirt con Wild Bill è di fianco a quella con Donald Trump, l’immagine iconica di Calamity Jane sfuma nella gigantografia dell’Aquila, con non equivocabile rimando al Gop. Un caleidoscopio che deflagra nella satira, sotto forma di una maglietta geniale: tre orinatoi in fila, e tre figure maschili intente a utilizzarli. Le prime due, raffigurate di rosso-repubblicano, espletano la pratica come logica e anatomia vogliono, frontalmente. La terza, tutta blu, è girata al contrario, seduta nell’orinatoio. Didascalia: “The idiocy democrats”. Un colpo di Colt al Woke, meglio di cento trattati sociologici.
VOTO ALLE DONNE E CONSERVATORI
Da Deadwood a Cody sulla carta è una linea retta, ma la macchina di oggi segue la pista della carovana di ieri, deve arrampicarsi sulle Bighorn Mountains e riscendere, dalla foresta nera in cima fino alla discesa attraverso i canyon biancastri, che ti spalancano davanti il Wyoming. Primo Stato dell’Unione a garantire il suffragio femminile alla fine dell’Ottocento, oggi roccaforte antropologica del repubblicanesimo (due dati che messi in fila dovrebbero dire qualcosa alle femministe Ztl), il 5 novembre scorso ha fornito il seguente responso elettorale: Donald Trump 71,69%, Kamala Harris 25,84%. E la migliore analisi del voto potete svolgerla proprio nella città fondata da William Frederick Cody, allora e per sempre Buffalo Bill. Non richiede un grande sforzo intellettuale: basta comprare i biglietti per uno dei rodei che monopolizzano l’estate di questa città-monumento al West, e a uno dei titani che garantirono la supremazia della leggenda di fordiana memoria. Non è lo «sport dove i cowboy dimostrano la propria abilità in una serie di prove» di cui ciancia Wikipedia, il rodeo, perlomeno non lo è alle latitudini del Wyoming. Qui, è una seduta di autocoscienza della nazione, ripetuta tre volte al giorno a prezzi modici (il rodeo è interclassista come lo era il West e come lo è il Gop trumpizzato).
Comincia dentro la leggenda, un cowboy a cavallo da solo, in mezzo alla pista, le redini nella sinistra e nella destra la bandiera americana sopra tutto, sopra gli sguardi degli spettatori in piedi, sopra le voci che si fondono a scandire The Star-Spangled Banner e sopra l’appaluso finale che esplode. E continua con dosi massicce di realtà, il vitello preso al lazo che è ancestrale e impietosa perizia dei cowboys, cavalli selvaggi che paiono eruttare dalle pagine di Cormac McCarthy, fino a quel tentativo di realtà capovolta, perennemente frustrato e perennemente riproposto, che è il balzo dell’uomo sopra un toro inferocito.
«CALIFORNIANI, BENVENUTI NEGLI USA» Ma la realtà è anche intrattenimento, a maggior ragione a Cody, il cui fondatore formattò il West in Show quando si sparava, e si moriva, ancora. E allora i numeri sono intervallati dalle arringhe di un cowboy istrionico, il volto pittato, i jeans smaccatamente larghi e la battuta pronta ad ogni collega serio disarcionato. Parla molto col pubblico, questo conduttore western, perché nessuno è passivo nella Frontiera, o nella sua rievocazione. A un certo punto indica compiaciuto un gruppo sulla sua sinistra: «Siamo molto felici di avere oggi degli spettatori venuti dalla California. A loro diciamo: Welcome to America!». Ed è lo sberleffo finale, il sorriso pittato si allarga ulteriormente, la risata collettiva (destinatari della stilettata compresi) riempie l’aria del Wyoming, ma è anche qualcosa di serissimo e totus politicus. $ la rivendicazione di un’alterità radicale, è la Frontiera strappata domando la natura e il cavallo contro la Costa pacificata e troppo uguale all’altra, a dove si era partiti. $ l’ossessione dell’individuo davanti alla prateria delle scelte infinite contro la paturnia delle minoranze in coda per il sussidio statale, sono il vero Wild Bill e la vera Calamity Jane contro la Hollywood che li rimette in scena senza comprenderli, è la libertà ontologica contro la blasfemia dei governatori socialisteggianti. Benvenuti in America, qui abbiamo votato Donald oltre il 70%, qui saltiamo in groppa al toro e al destino.
IL SEGRETO DI MIKE IL TEXANO
All’estremo Ovest del Wyoming c’è Jackson Hole, “buca” antropizzata circondata dalla maestosa catena del Grand Teton, sorta come avamposto in cui discendevano i trapper per vendere le pelli degli animali abbattuti, oggi luogo che ospita il “Jackson Hole Economic Symposium” dove per l’ultima volta Jerome Powell parla da presidente della Fed. Il mercato fisico e il mercato finanziario, è la continuità nella rottura della storia americana, almeno prima del grande rammendatore, Donald Trump. Ma Jackson rammenda la propria storia per conto suo, ogni giorno, nella Main Street, come allora. Con la puntualità di un colpo di fucile, alle sei di pomeriggio prende corpo un Wild West Show urbano, in mezzo alla via, col traffico deviato e un Butch Cassidy barbuto che si mette a sparare a salve lì, nei luoghi dove l’originale sparava proiettili veri e tentò l’impossibile, trascinare l’equivoca anarchia western oltre il Novecento.
L’eccentricità del rito è stemperata da autoironia intelligente e commerciale (sinonimi, nel West), ma il punto è un altro, è la rivendicazione smisurata dell’anomalia americana. Se da Jackson Hole punti dritto a Sud, vedi le dorsali più verdi delle Montagne Rocciose tramutarsi in pietra grigia così regolare da sembrare disegnata, e poi contraddirsi improvvisamente in pareti vertiginose, sterminate, incombenti al punto da apparire in costante movimento, di purissima roccia rossa. Non rosata, non marroncina, un inedito rosso fuoco: è la splendida anomalia dello Utah. L’anomalia nell’anomalia è Arches, il parco nazionale con le formazioni arenarie frutto temporaneo dell’erosione (non c’è stasi, nella Frontiera, né naturale né umana) che disegnano gli strabilianti “Archi” simbolo dello Stato.

Qui il visitatore si affida a una guida professionale, anche perché l’esordio è su sterrato, non sterrato da scampagnata domenicale soft, sterrato dove della strada non ne è più nulla e si balla tra le dune come cowboys ubriachi fuori tempo massimo. Lui è Mike del Texas, per metà stagione conduce imbarcazioni sui fiumi di casa, d’estate trasloca nello Utah e su quattro ruote. Se dovessimo fare della sociologia (che per un texano è un insulto, beninteso), Mike sarebbe un democratico deluso. «Io lo dicevo ai miei amici istruiti, che continuavano a scuotere la testa e dichiararlo impossibile. Vince Trump, è sicuro, per due motivi molto precisi». E chiaramente non vede l’ora di dirteli, questa guida un po’ filosofa e parecchio simpatica: «No war, and economy». No war and economy: quattro parole secche, dai deserti immaginifici dello Utah, che spazzano via tonnellate di pensosi editoriali luogocomunisti nostrani. Il riscatto del lavoro, del salario e sopratutto della possibilità di “enterprise” («la burocrazia era cresciuta anche qui», e detto da un texano fa venire i brividi).

E quel “no war” che è l’agenda di queste ore, la pax trumpiana apparecchiata in Alaska ma che odora distintamente di Frontiera, perché è pace attraverso la forza. Alla fine, gli americani “hanno creduto e votato” queste due parole d’ordine (lui compreso, lascia chiaramente intuire) e, conclude Mike, “It’s democracy”. Proprio così, è la democrazia. Ma non la democrazia procedurale e dirigista, è la democrazia a cavallo, sono le note dell’inno che s’irradiano da un rodeo, è la democrazia ancora primigenia nei saloon di quella che era la città senza legge. È l’America, quella vera, benvenuti.
