L'Occidente costretto a tenersi in guardia dall'espansionismo dell'alleato turco

Ieri Erdogan era in Cina, fra i protagonisti del vertice anti-Nato dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, stretto al leader del Cremlino Putin, definito "caro amico"
di Andrea Morigimartedì 2 settembre 2025
L'Occidente costretto a tenersi in guardia dall'espansionismo dell'alleato turco

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Più ambigui della Turchia, non si può essere. Ieri il loro presidente Recep Tayyp Erdogan era in Cina, fra i protagonisti del vertice anti-Nato dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, stretto al leader del Cremlino Vladimir Putin, definito «caro amico». Il giorno stesso, una delegazione del governo di Ankara partecipava alla riunione d’urgenza dell’Alleanza Atlantica a Bruxelles sui raid russi in Ucraina. Al netto della spregiudicatezza di chi cerca di giocare su più tavoli e degli sforzi per ospitare colloqui di pace fra Mosca e Kiev, rivelatisi finora senza esito, il ruolo turco nello scacchiere internazionale rimane inspiegabile.

Sono stati il baluardo contro l’Unione Sovietica e il comunismo aggressivo durante la Guerra Fredda e questo ha fatto ignorare il male minore dell’invasione militare di Cipro del 1974, che ancora oggi divide l’isola. Di fronte al fatto compiuto, la realpolitik ha prevalso anche quando le mire espansionistiche turche si sono spinte a creare una zona d’influenza in Cirenaica, a poche miglia marine dalle coste italiane. Da lì, è possibile far partire migliaia di migranti clandestini verso l’Europa, che paga il governo di Ankara per bloccare i profughi sulla rotta del Mediterraneo.

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È comunque meglio avere Erdogan come alleato che come avversario, ripetono gli americani dal loro Dipartimento di Stato. È molto ragionevole tenere ancorato in Occidente uno Stato di oltre 85 milioni di persone (circa tre milioni delle quali vivono in Germania) e con un apparato militare fra i più efficienti e numerosi del mondo, il secondo della Nato dietro quello Usa. Anche se sul piano del rispetto dei diritti umani, l’ex Impero ottomano resta saldamente radicato in Oriente e non ha mai riconosciuto la propria responsabilità sul genocidio armeno, né tanto meno espresso il minimo mea culpa. Anche sulla persecuzione dei curdi da parte di Ankara, del resto, la comunità internazionale non ha saputo battere ciglio.

Quando si tratta dell’equilibrio in Medio Oriente, tuttavia, il confine fra l’amicizia e l’ostilità si assottiglia ancora di più. La strategia diplomatica è ora affidata al ministro degli Esteri Hakan Fidan, già al vertice dei servizi segreti. Alla caduta del regime di Bashar Assad in Siria, prima di lasciare che s’insediasse l’ex jihadista Ahmed Al Sharaa (alias Abu Mohammed al Jolani), pare che gli 007 di Ankara abbiano prelevato una mole enorme di documenti dal quartier generale dell’intelligence di Damasco. Poi hanno riaperto l’ambasciata, chiusa da dodici anni, e hanno piantato la bandiera rossa con la mezzaluna sul loro nuovo “possedimento”.

Da lì, sul turbolento confine con il Libano e Israele, la Turchia può trasformarsi nella nuova potenza regionale. Ne erano stati estromessi con la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale e ora, dopo averle ignorate per secoli se non per imporre loro pesanti tassazioni, hanno scoperto le popolazioni arabe, facendosi patroni della causa palestinese. Un secolo fa, tuttavia, non era ancora nato lo Stato ebraico, che rappresenta da un lato l’ostacolo principale al progetto di rimettere in piedi il Sultanato, ma dall’altro si rivela un nemico “necessario” affinché la Turchia rivendichi la propria leadership turca sul mondo islamico, in una competizione fra sunniti e sciiti che perdura da oltre un millennio e in un contesto di rivalità aperta con i sauditi. E l’unica speranza è che il confronto fra i musulmani non coinvolga l’Occidente e Israele.

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