Trump è pazzo! Trump è un dittatore! Trump è stupido! E così via... È questa, grosso modo, la narrazione dominante che emerge leggendo i principali quotidiani italiani ed europei. Le dichiarazioni e le mosse dell’amministrazione Trump vengono spesso descritte come impulsive, incoerenti, irrazionali, persino folli. Al di là dell’antipatia - talvolta dell’odio - che gran parte della stampa mainstream, tendenzialmente orientata a sinistra, nutre nei confronti dell’“uomo arancione”, molti commentatori dei salotti radical-chic si compiacciono nel dipingere Trump come un personaggio imprevedibile e privo di razionalità politica. Ma siamo davvero sicuri che dietro quelle mosse non si celi una logica precisa? Al di là degli innegabili successi dell’amministrazione Trump in ambito geopolitico - dall’intesa storica tra Armenia e Azerbaigian dello scorso agosto al piano di pace per Gaza - vale la pena soffermarsi anche sull’altra faccia della strategia trumpiana: quella economica.
L’economista Jasper Lukkezen, mio amico e collega presso la School of Economics dell’Università di Utrecht, ha recentemente sostenuto che l’amministrazione Trump non abbia un vero piano economico. A titolo di esempio cita la politica dei dazi all’importazione: annunciati in pompa magna il 2 aprile e completamente rimodulati appena una settimana dopo. Lukkezen richiama inoltre il cosiddetto dilemma di Triffin, il paradosso per cui un Paese la cui moneta funge da valuta di riserva mondiale - come il dollaro - deve emettere moneta per sostenere l’economia globale, ma così facendo ne indebolisce la credibilità e il valore. In effetti, la strategia economica di Trump sembra puntare a contenere il valore del dollaro, forzando al contempo la banca centrale a tagliare i tassi di interesse, con l’obiettivo di stimolare l’industria nazionale e finanziare il crescente debito pubblico.
Secondo Lukkezen, questa politica sarebbe il segno del declinante predominio internazionale degli Stati Uniti e della volontà del Presidente di arricchire sé stesso e il suo entourage. Il risultato, a suo dire, sarebbe un’economia meno innovativa e incapace di generare prodotti complessi: esattamente l’opposto di quanto sostenuto da Philippe Aghion e Peter Howitt, insigniti pochi giorni fa del Premio Nobel per l’Economia. Io, invece, propongo una chiave di lettura diversa. A mio avviso, l’obiettivo di mantenere bassi dollaro e tassi di interesse rientra in una strategia più ampia: quella di rafforzare un ecosistema imprenditoriale e innovativo capace di attrarre nuovi capitali e consolidare gli investimenti già in atto nei settori strategici dell’intelligenza artificiale e delle sue applicazioni - dalle biotecnologie alle scienze della vita, fino allo sviluppo di nuovi farmaci. Le spinte, talvolta “poco istituzionali”, alla deregolamentazione e semplificazione amministrativa vanno lette in questa prospettiva: ridurre gli ostacoli strutturali alla crescita e accelerare il ciclo dell’innovazione. Una politica che mira, in ultima analisi, a rilanciare la crescita americana e a consolidare la futura leadership tecnologica del Paese. Come suggeriscono i contributi degli stessi Aghion e Howitt, il dominio economico di domani passerà attraverso la supremazia tecnologica. Dunque, siete ancora sicuri che Trump sia davvero pazzo?