La caduta di Al Fashir è una ecatombe, la Gaza che nessuno vuol vedere. Dopo 18 mesi di assedio, il 26 ottobre la Sesta divisione di fanteria dell’esercito del Sudan si è ritirata e i ribelli delle Forze di Supporto Rapido (FSR) controllano la capitale del Darfur Settentrionale. Stupri, violenze, esecuzioni sommarie, persino gente bruciata viva. Si stimano 2500 morti. Fra essi, martedì, il personale e i pazienti del Saudi Maternity Hospital: almeno 460 persone, riferisce l’Organizzazione Mondiale della Sanità (che ha accertato 285 attacchi portati a strutture sanitarie dall’inizio del conflitto, con almeno 1204 morti e più di 400 feriti).
Secondo la Sudan Doctors’ Union, 177mila persone restano intrappolate senza cibo, acqua, assistenza medica. Gli sfollati degli ultimi giorni sono 28mila: 2000 nella città di Tawila (70 km a ovest), i restanti nelle campagne. Altre migliaia, riporta Charmaine Hedding, presidente dello Shai Fund che fornisce assistenza da Murfreesboro, in Tennessee, stanno attraversando il deserto verso le zone più umide del vulcano Jebel Marra («la montagna amara»), un simbolo della patria per la gente del Darfur.
Ma la catastrofe del Sudan non buca gli schermi, non scatena manifestazioni, non commuove i sindacati. C’è infatti di mezzo lo jihadismo dei Fratelli Musulmani, e quindi profilo basso.
Detto forte e chiaro: i massacri in corso oggi sono inammissibili, ma il conflitto è complesso. In Sudan ha governato per 30 anni e fino al 2019 Omar al-Bashir, generale golpista e islamista che diede ospitalità a Osama bin Laden e nel 2009 fu raggiunto da un mandato di arresto del Tribunale penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità. Fu deposto da un nuovo golpe militare operato da uno dei suoi ministri, Ahmed Ibn Auf, che associò al potere il generale Abdel al-Burhan, a propria volta golpista il 25 ottobre 2021, quando il potere sarebbe dovuto passare ai civili. Il conflitto odierno è scoppiato il 15 aprile 2023 quando i paramilitari delle FSR si sono rivoltati. Create nell’agosto 2013, allora le FSR collaboravano con l’esercito sudanese nella repressione dei ribelli. I suoi effettivi provengono per lo più dai miliziani Janjawid (che significa «demoni a cavallo»), impiegati da Bashir per il genocidio nel Darfur degli anni Duemila. Ancora una volta alla vigilia del trasferimento del potere ai civili, il generale Mohamed Hamdan Dagalo, nome di battaglia «Hemetti», cioè «piccolo Maometto», lanciò dunque le FSR nella guerra contro Khartoum. Faide per il potere e per il controllo delle risorse, certo, ma Dagalo accusò Burhan anche per l’alleanza con una delle maggiori organizzazioni islamiste del mondo, i Fratelli Musulmani. Dietro al governo sudanese ci sono insomma il Qatar, che finanzia lautamente la Fratellanza, e l’Iran, che a Burhan ha fornito i formidabili droni da combattimento Ababil-3 e Mohajer-6.
Il vento dei Fratelli Musulmani soffia in poppa al Sudan da tempo. Lo fece con il despota Bashar, ma anche con Hasan al-Turabi, altro uomo chiave dell’islamismo sudanese, prima sodale di Bashar e poi suo rivale, e lo fa con Burhan contrastato da Dagalo. «Fra Turabi e Bashir c’era una lotta di potere; fra Burhan e Dagalo c’è una lotta di potere e una ideologica», dice a Libero Anna Mahjar Barducci.
Giornalista, scrittrice e ricercatrice per il Middle East Media Research Institute (Washington), di padre italiano e madre marocchina, è cresciuta in Africa, ha studiato in Pakistan e sottolinea che i massacri compiuti dalle FSR ad Al Fashir sono gravissimi, ma non unici. In questa lotta senza esclusione di colpi, il governo di Burhan non è da meno e sul Darfur Settentrionale, capitale compresa, i suoi attacchi aerei e di artiglieria hanno causato centinaia di morti negli ultimi mesi. «Al-Jazeera, emittente televisiva di Stato del Qatar», osserva la Barducci, «sta conducendo una massiccia campagna propagandistica contro Dagalo, facendo passare Burhan come il salvatore della patria, ma la situazione sul campo è ben più articolata».
Non solo l’ennesima efferata serie di massacri, non solo uno scontro di potere locale nel terzo Paese più popoloso dell’Africa, ma anche il tentativo di arginare lo jihadismo in una zona del Continente che è strategica per i commerci marittimi e chiave per l’intera area sub-sahariana. Un tentativo supportato da chi non ha alcun interesse che Fratellanza e Qatar si diffondano nella regione e che, perseguendo politiche alternative, ha voluto i cosiddetti patti di Abramo: gli Emirati Arabi Uniti che sostengono Dagalo.
Il prezzo in vite umane e crudeltà è insopportabile, questo fatto resta. Mohamed Ibn Chambas, ghanese, già Rappresentante speciale del Segretario delle Nazioni Unite per l’Africa Occidentale e il Sahel, nonché membro della Missione congiunta ONU-Stati africani per la pace in Darfur tra 2012 e 2014, chiede una soluzione oltre le parti belligeranti. Indispensabile. Ma è proprio qui che un Occidente determinato brilla per assenza.




