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Lagarde, offesa per le critiche dell'Italia: i tecnici europei si sentono intoccabili

Corrado Ocone
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In democrazia non esistono zone franche che possano sottrarsi, per un diritto acquisito, alla libera critica o al giudizio politico. A meno di non voler ritornare ai tempi e alle pratiche dell’ancien régime, quando il sovrano aveva il potere di decidere per “diritto divino”. In quel caso criticare il potere costituito era, insieme, un “peccato” e un atto di sedizione, e come tale andava punito.

Le odierne autorità indipendenti, comprese le banche centrali, non possono perciò pretendere di sottrarsi a questo sano principio democratico: l’uomo, per dirla con Kant, è uscito dalla minore età e ha il diritto-dovere di tutto sottoporre al “tribunale della ragione”. Tanto più questo principio è valido se a criticare alcune decisioni delle autorità indipendenti sono esponenti politici, i quali godono di una legittimazione popolare che ai “tecnici” manca del tutto.

 

 

 

Alla luce di queste considerazioni suona alquanto stonata, e sicuramente fuori luogo, la risposta piccata che Christine Lagarde, direttore della Banca Centrale Europea, ha riservato ai giudizi rivolti al suo operato da alcuni esponenti politici italiani, in primo luogo da Antonio Tajani. Il vicepremier (e già presidente del parlamento Ue) aveva infatti commentato la decisione di Francoforte di abbassare i tassi di interesse di soli 25 centesimi di punto con queste parole: «Mi aspettavo una scelta più coraggiosa, lo 0,25% è troppo poco». Un giudizio politicamente e razionalmente argomentato a cui Lagarde ha replicato a Budapest nel corso della conferenza stampa post-eurogruppo richiamandosi stizzita all’“indipendenza” della Banca sancita nel Trattato Ue.

A questo punto bisogna però intendersi su cosa sia questa “indipendenza” e su come vada concepita. Essa, intanto, non è assoluta: è relativa e circoscritta alla funzione esercitata, che fra l’altro è limitata anche temporalmente. Serve a garantire una libertà e coerenza d’azione ai componenti di un’autorità, che non essendo di parte e né (teoricamente) influenzabili, possono mirare più facilmente al raggiungimento effettivo di determinati obiettivi. Non si può però dimenticare che questi fini vengono stabiliti, in ultima analisi, in sede politica. Ai cittadini, e ai politici che li rappresentano, tocca perciò giudicare e monitorare costantemente le azioni di chi svolge questa funzione “tecnica”, la conformità delle loro decisioni agli obiettivi prefissati. In questo modo la politica prepara sempre nuovi e più adeguati equilibri, che finiranno inevitabilmente per stabilire in futuro nuovi obiettivi e compiti. Tajani è perciò perfettamente legittimato a dire la sua, come è ovvio che sia, ma anche a delineare nuovi scenari a cui tendere. In questo preciso senso vanno perciò intese le sue successive parole: «Non dobbiamo cedere ai capricci dei rigoristi, anche della Germania. È indispensabile una riforma della Bce».

 

 

 

In verità, le affermazioni della Lagarde sono, considerate in un’ottica più ampia, una perfetta cartina al tornasole di quelle che sono oggi le difficoltà vere del processo di integrazione europea. L’Unione, come è adesso, soffre infatti di un deficit di politica e di democrazia a cui si cerca di ovviare affidando poteri eccessivi ad un ceto tecnocratico che tende sempre più a considerarsi esente da critiche. Di questo conato antipolitico è immagine significativa l’afflato lirico con cui sono stati recentemente accolti i due Rapporti affidati dalla Commissione Europea a Letta e a Draghi: sicuramente seri e argomentati ma non per questo da considerarsi quasi come Bibbie, non discutibili e non criticabili.

La sintesi dovrebbe spettare sempre alla politica, la quale mai può risolversi in semplice esecutrice di decisioni prese fuori dall’agone democratico. Quanto al caso specifico, non dobbiamo dimenticare che Lagarde, per quanto tecnica, è stata scelta e designata comunque da un politico, esponente dell’ideale tecnocratico che oggi domina in Europa, cioè Macron. Né bisogna dimenticare che l’operato della Bce, in questi anni, non può dirsi certo esemplare nella capacità di rispondere alle sfide del nostro tempo e tutelare gli interessi dei cittadini europei. Come si può garantire la prosperità del continente se ci si focalizza solo sull’inflazione (il parametro del 2% non può essere un dogma) e non si garantisce la crescita? Ad essere messa in pericolo non è proprio la coesione interna all’Unione, che pure dovrebbe essere l’obiettivo principale di un’istituzione come la Bce? Sono domande che è lecito farsi. Un potere che vuole sottrarsi a critiche non solo non è democratico, ma prepara lentamente la propria fine. Che sarebbe, in questo caso, della stessa Ue.

 

 

 

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