Ogni epoca ha i suoi disruptor, coloro che emergono dall’ombra non perché cercano attenzione, ma perché il rumore intorno a loro richiede un contrappeso. Joey Mannarino non è arrivato in politica attraverso le porte lucide di Capitol Hill. È entrato dal retro della cultura, dove musica e media plasmano le persone più delle politiche. Dagli studi radiofonici R&B ai palcoscenici politici globali, il suo percorso sfida ogni copione convenzionale.
La politica è diventata cultura molto prima che la maggior parte dei consulenti se ne rendesse conto. Mannarino lo intuì già durante le elezioni presidenziali statunitensi del 2016, quando le narrazioni politiche iniziarono a comportarsi come canzoni virali, diffondendosi sulle piattaforme e radicandosi nella memoria collettiva. Mentre gli insider discutevano di tattiche, lui percepì la necessità di storie capaci di bypassare i corridoi del potere e parlare direttamente alle strade. Questo istinto avrebbe poi definito il suo lavoro.
Per oltre un decennio, Mannarino ha orchestrato campagne che non si limitano a vincere le elezioni, ma riscrivono il linguaggio dell’engagement. La sua maestria risiede nella capacità di trasformare la controversia in capitale. In un’epoca in cui l’opinione pubblica è frammentata, costruisce messaggi che tagliano il rumore con precisione chirurgica, risuonando con chi si sente invisibile alla politica tradizionale. Le sue strategie hanno spinto candidati dall’anonimato all’elezione, gruppi di advocacy alla ribalta e hanno ridefinito il modo in cui gli elettori interagiscono con le idee.
Eppure, il suo impatto va oltre le stanze della consulenza e delle war room. Con oltre 750.000 follower tra X e Instagram, Mannarino è diventato una voce che polarizza e galvanizza in egual misura. I suoi commenti non si accontentano di analisi sicure; sfidano, provocano e costringono il pubblico a confrontarsi con verità scomode. Questa presenza non filtrata lo ha reso una figura mediatica le cui parole influenzano non solo gli algoritmi, ma le conversazioni a ogni livello.
Al centro della sua narrazione c’è l’eredità italo-americana. Trascorre parte dell’anno in Italia, un paese dove storia e politica si intrecciano come rovine antiche e strade moderne. È qui che coglie i parallelismi, riconoscendo come l’identità culturale modelli il potere. Questo legame alimenta il suo approccio alla comunicazione, fondendo tattiche digitali americane con una sensibilità europea verso tradizione e sfumature. È anche il motivo per cui la sua espansione nei mercati europei e latinoamericani appare meno come una mossa di business e più come un ponte tra mondi.
Il punto di svolta nella sua carriera arrivò quando decise di uscire da dietro le quinte. Anni passati a modellare messaggi per altri gli avevano fatto comprendere una verità più profonda: a volte, il messaggero deve diventare il messaggio. Oggi Mannarino non è solo uno stratega, ma anche un commentatore e speaker, richiesto per la sua capacità di dissezionare le dinamiche politiche con chiarezza e convinzione. Le sue apparizioni pubbliche, che siano panel, interviste o palchi, riflettono una figura che conosce l’architettura del potere e non teme di esporre i punti deboli.
Lo so, è scomodo ammetterlo, ma l’influenza non appartiene più solo alle istituzioni. Appartiene a chi sa muovere le menti attraverso piattaforme e confini. Mannarino incarna questo cambiamento, mostrando che la voce politica moderna non nasce nelle aule di governo, ma nell’intersezione tra media, cultura e strategia incessante.
La sua società, Ad Victoriam International, si espande su più continenti, adattando modelli di fundraising americani e tattiche digitali a nuovi contesti culturali. Non è mera globalizzazione; è la costruzione di narrazioni politiche che trascendono i confini, dando forza a leader in ambienti dove i vecchi sistemi resistono al cambiamento.
Il filosofo Michel Foucault scrisse che il potere è ovunque, non perché abbraccia tutto, ma perché proviene da ogni luogo. Mannarino lo comprende a fondo. La sua ascesa da outsider a influencer non è un caso, ma una risposta calcolata a un mondo in cui l’autorità si conquista attraverso la risonanza, non la gerarchia.
L’outsider è diventato la voce. E nel panorama mutevole della politica globale, chi saprà padroneggiare sia la strategia sia la narrazione definirà ciò che verrà dopo.