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Giustizia, l'adozione e quel lungo viaggio a caccia delle radici

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Bruno Ferraro
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 Il ritorno alle origini nei luoghi in cui si è nati e si sono succedute le prime esperienze di vita, e l’incontro con le persone che hanno popolato la propria infanzia, rappresentano per tutti un modo per riappropriarsi del passato e metterlo a confronto con la propria identità nel presente. Tale constatazione è ancora più valida per un figlio adottivo che, nel momento in cui è stato assegnato a una nuova famiglia, ha subito un taglio netto e definitivo con la famiglia biologica. La legge originaria imponeva addirittura l’anonimato, la recisione di ogni legame, il silenzio tombale sul passato. Al recente Giffoni Film Festival è stata presentata una fiaba che ha vinto il primo premio dal titolo “Il più bel secolo della mia vita” per evidenziare che solo dopo 100 anni il figlio può sapere l’identità dei genitori biologici! Successivamente, studiando meglio il problema sotto l’aspetto psicologico, ci si è resi conto del fatto che crescendo il figlio adottivo è portato a farsi delle domande ed ha bisogno di avere delle risposte: in particolare quelle sul dove e da chi è nato, sul perché dell’abbandono.

È un’esigenza sacrosanta, non eludibile, nella misura in cui tutti hanno bisogno di collegare passato e presente, di toccare con mano i motivi che hanno determinato l’evento traumatico del passaggio ad una famiglia diversa, spesso residente a migliaia di chilometri di distanza, con i problemi di integrazione che è facile immaginare. Se dunque il problema è reale e se ne è reso conto lo stesso legislatore, si impongono una serie di raccomandazioni, evitando viaggi improvvisati, intempestivi, frettolosi, di semplice curiosità o di taglio turistico: evitando soprattutto di crearsi troppe aspettative, di sottrarsi alla tentazione di recuperare in termini positivi un passato doloroso o di enfatizzare in negativo le eventuali difficoltà del presente. Quali le raccomandazioni è presto detto.

 

 

In primo luogo occorre prepararsi al viaggio, chiedendo magari consiglio allo psicologo, sentendo ragazzi che hanno vissuto la stessa esperienza ed hanno ben chiaro il perché del viaggio medesimo. In secondo luogo scegliere se fare il viaggio da solo od in compagnia dei genitori adottivi. Il figlio dovrà far capire che il viaggio non significa che ha intenzione di scappare dai genitori ma solo dare a sè stesso la possibilità e la libertà di scoprire la cultura che in qualche modo gli appartiene per aver caratterizzato i primi difficili passi della sua esistenza. Viaggiare da solo può evitare al figlio di sentirsi confuso e in qualche modo influenzato per il tenore degli interrogativi connessi al viaggio. In terzo luogo occorre che i genitori affidatari dimostrino comprensione per la scelta del figlio, mascherando il proprio disorientamento, sostenendolo nella scelta, evitando di pensare che il viaggio equivalga alla perdita del ragazzo. Il risultato di tutto questo sarà un processo di crescita per il figlio ed una maturazione maggiore del rapporto tra lui ed i genitori che si sono fatti carico con l’adozione della sua vita. Un giovane, di ritorno da un viaggio del genere, ha esclamato: «Mi sento meno teso e più sollevato, ho capito finalmente cosa significa davvero essere adottato».

 

 

 

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