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Craxi, Formica, Di Pietro e la verità su Borrelli

Francesco Damato
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In una lunga intervista al quasi centenario Rino Formica raccolta per il Corriere della Sera da Aldo Cazzullo - in coincidenza con i 32 anni trascorsi dal 17 febbraio 1992, quando Tangentopoli esplose con l’arresto di Mario Chiesa mentre si faceva pagare dai fornitori dei servivi di pulizie del Pio Alberto Trivulzio che presiedeva, c’è la convinzione che l’allora capo della Procura di Milano, Francesco Saverio Borrelli, volesse diventare capo dello Stato. Una convinzione, o sensazione, come preferite, che avendo peraltro ispirato il titolo dell’intervista potrebbe dare- temo - una lettura sbagliata di tutta quella vicenda giudiziaria nota come “Mani pulite”, che ancora produce i suoi effetti sulla politica italiana per il perdurante squilibrio nei rapporti fra la politica e la giustizia.

L’impressione del Quirinale nelle ambizioni di Borrelli potrebbe eccitare la fantasia del lettore anche in considerazione delle «informazioni - racconta Formica a Cazzullo a proposito del “poker d’assi” dallo stesso Formica attribuito a Craxi ai margini di una riunione di partito di quei tempi- che i servizi e la polizia avevano fornito ad Amato, che era presidente del Consiglio», segnalando «il traffico telefonico del pool» di magistrati. Alcuni dei quali erano convinti di poter rivoltare l’Italia come un calzino senza bisogno di aspettare che lo facessero gli elettori, evidentemente troppo disinformati per muoversi in simile direzione rivoluzionaria.

 

 

 

SGRADITA SORPRESA

«I servizi - racconta Formica, ormai cieco ma di una memoria diretta o indiretta acutissima- hanno come compito controllare tutto quello che avviene attorno al potere. Anche Mussolini era intercettato. I servizi ascoltavano le sue conversazioni con la Petacci. Certo, il confine fra la tutela delle istituzioni e l’intrigo è sottile. Dipende dall’uso che se ne fa». E che cosa avevano scoperto i servizi? chiede giustamente incuriosto Cazzullo. «Che un po’ tutti i magistrati del pool - risponde Formica - non erano stinchi di santo. Non solo Di Pietro. Ognuno aveva il suo corrispondente esterno: politico, religioso, internazionale. E ognuno aveva la sua ambizione: chi voleva fare il presidente del Consiglio, chi il presidente della Repubblica», come appunto un Borrelli che «appare in tv - ricorda Formica - e dà ordini al Parlamento», così «agendo come un aspirante capo dello Stato».

Di altre sortite politiche, o simili, di Borrelli ne ricodo una nella quale avvertì che, «se chiamato», lui o altri magistrati avrebbero potuto anche servire il Paese senza portarsi addosso la toga. Il che lasciava prevedere, in verità, una chiamata più a Palazzo Chigi o dintorni che al Quirinale, dove per essere chiamati bisognava aspettare che il presidente della Repubblica in carica scadesse o si dimettesse e il Parlamento in seduta comune, con i rinforzi dei visibili delegati regionali e dell’invisibile Spirito Santo, se non contemporaneamente impegnato in un Conclave per un nuovo Papa, non si mettessero a votare per un esterno avvertito come necessario, e non solo come disponibile.

Per quel che ricordo di quei tempi, risalendo indietro di qualche mese rispetto all’arresto di Mario Chiesa, di Borrelli conoscevo l’aspirazione ad essere semplicemente promosso da capo della Procura della Repubblica a capo della Procura Generale della Corte d’Appello, dove era già arrivato il padre lasciando un buon ricordo che il figlio evidentemente desiderava replicare. Ma quando giunse l’occasione, col pensionamento del mitico Adolfo Beria di Argentine, pur tempestivo nella presentazione della domanda e nella ricerca discreta di appoggi, pur sentito già una volta dalla competente commissione selezionatrice del Csm, dove forse aveva avvertito qualche attenzione positiva nei suoi confronti, Borrelli ebbe qualche sgradita sorpresa.

Egli seppe, per esempio, della presentazione in extremis, o fuori tempo massimo, della domanda di partecipazione al concorso a Procuratore generale della Corte d’Appello ambrosiano di Giulio Catelani, che gli fu preferito. E al cui insediamento, data l’importanza del distretto giudiziario di Milano, volle partecipare personalmente il presidente del Consiglio in carica, Giulio Andreotti. Borrelli ci rimase comprensibilmente male. Ancora peggio quando gli raccontarono, francamente non so se prima o dopo l’insediamento di Catelani, destinato comunque a vivere a Milano un’esperienza a dir poco tormentata e chiusa precocemente, che a metterci lo zampino in quella nomina era stato Bettino Craxi in persona, spiazzando i socialisti del posto che non erano per niente contrari alla promozione del capo della Procura di primo grado.

 

 

 

IL COLLOQUIO

Era accaduto che, alla vigilia delle decisioni del Csm sui vertici giudiziari di Milano, Andreotti invitò il leader socialista a un colloquio privato. Durante il quale gli fece presente che Borrelli, poco più che sessantenne, non solo sarebbe passato dal primo al secondo grado della Procura della Repubblica ma vi sarebbe rimasto a lungo derogando, sotto il primo e sotto il secondo aspetto della questione, ad abitudini diverse nell’ambiente giudiziario. Esse sarebbero tornate normali spostando Catelani da Firenze a Milano. Il discorso parve ragionevole a Bettino, che lo condivise. Non ho mai avuto occasione di parlare di questo passaggio con Claudio Martelli, che era allora il ministro della Giustizia. Un suo intervento certo aiuterebbe a fare chiarezza. So tuttavia che la mancata nomina di Borrelli alla Procura Generale della Corte d’Appello in quella occasione, sopraggiunta invece in un’altra rimasta celebre col suo triplice appello alla “resistenza” ad un potere (o sistema, chiamatelo come volete) nel frattempo passato nelle mani di Silvio Berlusconi, contribuì quanto meno a creare a Milano negli anni Novanta un clima giudiziario assai difficile, quanto meno, per i socialisti. Un clima poi diffusosi un po’ dappertutto in Italia.

 

 

 

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