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Giovanni Toti, la mossa dei pm: in arresto fino alle Europee

Pietro Senaldi
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È molto impegnata, la Procura di Genova; c’è da capirla, con tutte quelle carte e intercettazioni prodotte estranee ai capi d’accusa ma che fanno una così bella figura sui giornali...

Venerdì scorso l’imputato agli arresti domicilia ri, Giovanni Toti, si è avvalso della facoltà di non rispondere davanti al giudice per le indagini preliminari, Paola Faggioni. Il suo studio legale era stato appena invaso da novemila pagine di inchiesta che non c’era stato il tempo di esaminare. Qualsiasi strategia difensiva sarebbe stata un tuffo a occhi bendati. Ora che sembrano meglio delinearsi i confini della vicenda, il governatore vorrebbe parlare con i pm. La richiesta è stata formalizzata e ci si aspettava che l’incontro sarebbe avvenuto tra domani e venerdì. L’avvocato Stefano Savi, ieri in procura per concordare la data con i magistrati, ha ricevuto una brutta sorpresa. Ci sono tante persone da ascoltare e quindi Toti, anche se è l’unico del quale alla politica e all’opinione pubblica importi qualcosa, deve aspettare prima di poter essere interrogato ed esporre personalmente la propria linea difensiva. Probabilmente attenderà un’altra settimana, ma non è escluso che l’appuntamento slitti anche più in là.

Il non detto è che slittare il faccia a faccia è funzionale a due scopi. Il primo è aumentare la pressione, mediatica e non solo, sul governatore perché si dimetta attraverso una strategia cinica che prevede di dare in pasto alla stampa ogni giorno un’accusa diversa; non importa che sia provata e neppure che rientri nei capi d’imputazione, conta solo che venga rilanciata e contribuisca a indebolire la posizione politica e umana del presidente, a prescindere dalle reali valenze processuali di quanto pubblicato e a prescindere dal fatto che siano circostanze che la magistratura contesta effettivamente all’imputato. Si sprecano gli esempi di questo, dal numero di anziani gonfiato per avere più vaccini, filone verso l’archiviazione, al finto scandalo delle mascherine, un affare da un milione e 200mila euro dove il governatore è coinvolto solo perché al telefono due trafficoni si dicono che «se arriviamo a Toti facciamo briscola» ma in merito al quale non è stato provato nulla, neppure il fatto che siano state date le carte. Il via libera alla Diga Foranea e quello all’allargamento delle discariche in provincia di Savona sono altre accuse finite nel frullatore ma non addebitabili a Toti penalmente; solo chiacchiere per far saltare i nervi all’indagato e, soprattutto, alla maggioranza di centrodestra, affinché arrivino le dimissioni. Ma ieri il premier Meloni ha blindato il governatore almeno fino all’interrogatorio: «Toti ha governato bene, attendiamo le sue risposte alla magistratura».

Il secondo scopo è slittare il confronto per portarlo il più possibile vicino alle elezioni Europee dell’8 e 9 giugno, in modo che, anche se la deposizione di Toti risulti convincente e faccia venir meno le esigenze cautelari, si possano dilatare ancora un po’ i tempi di un eventuale rilascio in modo che la consultazione avvenga con il presidente ancora agli arresti.

Ma c’è un’altra particolarità di questa inconsueta fase preliminare. La difesa non ha ancora avuto visione di tutte le intercettazioni del governatore. Ci potrebbero essere delle conversazioni non date in pasto ai cronisti perché non confacenti con l’impianto accusatorio e nelle quali potrebbe risultare evidente la mancata volontà dell’indagato di essere corrotto. D’altronde la frase in cui l’ipotetico corruttore dichiara di «essere preso in giro da Toti», che non avrebbe fatto le cose promesse, più che un modo di scaricare il presidente, come è stato letto dalla stampa a lui più ostile, sarebbe un elemento che smonta l’accusa. La corruzione infatti si basa sul principio del do ut des, pago perché tu faccia; se però il beneficiato non fa, manca l’elemento essenziale e i bonifici dell’imprenditore, per di più regolarmente denunciati dall’indagato, costituiscono semplice finanziamento elettorale alla fondazione del governatore. Naturalmente, il ritardo dell’invio di queste carte crea parecchie difficoltà tecniche alla difesa, che più passa il tempo più è in difficoltà nell’esaminare il materiale.

Altro elemento tuttora mancante per completare il quadro è il deposito delle motivazioni che hanno giustificato l’inizio delle intercettazioni. Per legge, come fa notare sul Foglio il collega Ermes Antonucci, esse possono partire solo in presenza di “gravi indizi di reato”, altrimenti sono tutte suscettibili di finire al macero ed essere inutilizzabili per il processo. Nessuno ancora sa cosa hanno scritto i giudici, ma a quel che si sa finora questi gravi indizi sono piuttosto opinabili. Tutto infatti parte da una conversazione che Toti ha avuto con il suo capo di gabinetto, Matteo Cozzani, nella quale gli diceva di voler incontrare a cena, con altri, l’imprenditore Pietro Colucci, attivo sul fronte dei rifiuti e suo finanziatore tra il 2016 e il 2020 con 195mila euro, «per parlare a voce, tra l’altro, delle discariche di Savona». È chiaro che, se le intercettazioni dovessero risultare immotivate, franerebbe tutta l’accusa e resterebbe solo il danno politico e mediatico.

Tanto è bastato ai pm per annusare un’ipotesi di reato e intercettare il governatore per quasi tre anni con, casualità che fa notare Antonucci, inizio proprio dal primo settembre 2021, giorno del pranzo di Toti sulla barca di Spinelli. Pensa che fortunata coincidenza, neanche a saperlo prima, magari grazie a qualche altra telefonata ascoltata chissà come... 

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