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Liguria, il giudice inguaia il pm del caso-Toti: qualcosa non torna

Pietro Senaldi
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La Liguria va avanti malgrado l’inchiesta che ha portato agli arresti domiciliari il suo presidente, Giovanni Toti. Martedì in Consiglio Regionale è fallita la spallata dell’opposizione, che voleva cavalcare politicamente l’offensiva giudiziaria e indurre il governatore alle dimissioni: mozione di sfiducia respinta 18 a 11. Il venerdì precedente la giunta aveva dato il via libera al terzo supermercato dell’Esselunga a Genova, quello previsto a Sestri Ponente, che si aggiunge ai già esistenti di Alvaro e di San Benigno. Un altro schiaffo politico, visto che solo la settimana prima il Secolo XIX titolava a tutta pagina sul rinvio della pratica e che il gruppo della grande distribuzione rientra in uno dei tre filoni dell’inchiesta che riguarda il presidente.

Ieri, una nuova notizia, stavolta dal tribunale, che in apparenza potrebbe sembrare sfavorevole a Toti, ma in realtà non lo è. Il giudice per le indagini preliminari, Paola Faggioni, ha respinto la richiesta dell’avvocato Stefano Savi di retrodatare all’ottobre 2020 o, in subordine, al novembre 2021 l’iscrizione del presidente nel registro degli indagati, avvenuta invece solo nel dicembre scorso (2023). La domanda si fonda sulla legge Cartabia, che consente all’indagato di chiedere al giudice di «accertare la tempestività dell’iscrizione nel registro degli indagati e, nel caso, di retrodatarla, indicando, a pena di inammissibilità, le ragioni che la sorreggono e gli atti del procedimento da cui è desunto il ritardo». Trattasi di una norma a difesa dell’accusato, perché l’informazione di garanzia sarebbe in teoria a sua tutela e quindi, prima viene comunicata, meglio è per lui, e perché da quel momento decorre la tempistica processuale favorevole al presunto reo, per esempio l’inizio del termine di decorrenza delle indagini preliminari, che non può essere eterno.

 

«L’obbligo del pm di procedere all’iscrizione subentra solo quando a carico di una persona emerge un quadro indiziario serio, ossia l’esistenza di specifici elementi indizianti e non di meri sospetti», scrive la Faggioni nel motivare il rifiuto dell’istanza di Savi. Il magistrato aggiunge poi che la Cartabia è entrata in vigore dopo l’inizio dell’indagine svolta nei confronti di Toti ma a lungo a sua insaputa e chiosando che comunque non sono fatti suoi ma dei pm, perché «l’iscrizione, data la sua delicatezza e le conseguenze che implica, va fatta sulla base di un attento esame degli atti e di una complessa attività di studio e controllo della documentazione acquisita, da valutare in modo unitario». A parte le ultime due, risibili, argomentazioni, che non tengono conto che principio cardine del diritto penale è che si applica la norma più favorevole all’imputato, anche se e quando questo scoccia ai magistrati, e che la Cartabia dà anche al gip il potere di retrodatare l’iscrizione, a patto che abbia tempo e voglia di studiare la pratica che è chiamato a giudicare, quella che è davvero inquietante è la prima argomentazione.

UN BUCO DI TRE ANNI
Il giudice infatti sostiene che nel 2021 non c’erano elementi per indagare Toti per corruzione elettorale. Tuttavia, lo specifico reato contestato al presidente riguarda il voto di quell’anno, visto che dopo non si è più votato per la Regione e, di fatto, l’attività indagatoria relativa a quella fattispecie si ferma per lo più all’autunno 2020, data delle elezioni vinte dal governatore di centrodestra.

Perché allora il presidente viene informato di essere sotto indagine solo tre anni dopo? Quali «elementi seri e non meri sospetti» a suo carico sarebbero emersi nell’ambito della corruzione elettorale? Compulsando le novemila e passa pagine che i giudici hanno messo a disposizione agli avvocati e alla stampa, non ne risulta neppure mezzo.

La prima risposta che viene ai suddetti quesiti è che, così facendo, gli inquirenti hanno potuto intercettare Toti senza avvisarlo per tre anni; tirando nella loro rete ben poco, considerati i tempi dell’attività spionistica. La seconda è che non solo hanno potuto allungare la durata dell’inchiesta a dismisura, ma hanno anche potuto decidere quando far scattare la trappola, non in base a evidenze dell’inchiesta, visto che nel dicembre 2023 non ce ne erano di impellenti, essendo anche la vicenda della proroga della concessione del terminal Rinfuse ad Aldo Spinelli datata 2021.

La terza, ancora più allarmante, è che nessuno sia stato mai troppo convinto che il governatore si sia macchiato del reato di corruzione elettorale e che però l’inchiesta non sia stata chiusa nel 2021 perché altrimenti non avrebbero potuto indagarlo e, soprattutto, non avrebbero potuto intercettarlo nella speranza che, a strascico, venisse fuori qualcos’altro. Se si credesse a questa tesi, bisognerebbe dedurne che quindi tutta l’attività inquisitoria di tre anni in realtà non sia stata altro che una faticosa e gigantesca caccia all’uomo svolta nell’ombra ed emersa a forza solo quando sono iniziate a girare le voci della sua esistenza; non fosse accaduto, magari la bolla sarebbe esplosa tra un anno, come una bomba a orologeria per far perdere a Toti la possibilità di fare un eventuale terzo mandato.

Al di là delle illazioni, restano ora in mano a Savi le dichiarazioni della gip, per cui non c’erano sospetti gravi sul governatore, e i precetti della Cartabia, in base alla quale buona parte del materiale raccolto dai magistrati potrebbe essere inutilizzabile. Tutte cose che il gip di Genova ritiene irrilevanti, ma chissà se, in caso di rinvio a giudizio, saranno ignorate anche dai suoi colleghi.

 

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