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Strage di Bologna, Tiziana Maiolo: "Il processo non si basa sulle prove ma sull'antifascismo"

Daniele Dell'Orco
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Tiziana Maiolo è un’altra delle penne che si sono formate nel seno del garantismo che caratterizzava “Il Manifesto” negli anni ’70. Quell’esperienza, nata da un gruppo di intellettuali dissidenti del Pci (avevano osato scrivere «Praga è sola» contro i carri armati sovietici), plasmò per buona parte il fronte innocentista che, dopo il 2 agosto 1980, si dovette confrontare con la strage di Bologna e che riteneva molto dubbia l’impalcatura su cui venne svolto il processo sulla bomba alla stazione.

Maiolo, tuttora, è convinta che Francesca Mambro, Valerio Fioravanti, Luigi Ciavardini e Gilberto Cavallini non abbiano piazzato l’ordigno che uccise 85, forse 86 persone. E che i Nar, e l’altra formazione neofascista Avanguardia Nazionale di cui aveva fatto parte un altro condannato, Paolo Bellini, non furono usate a tale scopo da Licio Gelli. Quest’anno lo slogan scelto dall’Associazione dei familiari delle vittime guidata da Paolo Bolognesi è stato: «Sappiamo la verità e abbiamo le prove».

 

 



Lo trova calzante?
«Mi sembra una strana perifrasi di quel famigerato “Io so, ma non ho le prove” di Pier Paolo Pasolini. Perché su Bologna di prove non ce ne sono. Basta leggere gli atti. Uno dei pm dell’epoca, Libero Mancuso, ha detto che le prove sono talmente tante da non riuscire ad elencarle. Si riducono a un teste chiave (Massimo Sparti, NdR) mentalmente fragile e a un’altra testimonianza su due persone vestite da tirolesi in piena estate. Stiamo parlando di processi ideologici. Se non esistesse la pregiudiziale dell’antifascismo quel processo non esisterebbe proprio».

Che intende per «pregiudiziale dell’antifascismo»?
«Che esiste una necessità, un vero bisogno, in una certa sinistra ideologica, molto presente a Bologna dai tempi del Pci e ben rappresentata anche nella magistratura, di infamare usando l’etichetta di fascista. Si tratta di un modo per affermare la propria presunta superiorità morale. Non so se siano stati i pm ad influenzare i comunisti in questo senso, o se sia accaduto l’opposto, ma so che su Bologna si nota bene l’esistenza di questo culto dell’antifascismo e della presunzione di concedere agli altri il bollino blu dell’antifascismo. Chi non lo ha, deve automaticamente essere fascista.
Dettero dei fascisti anche a noi del “Manifesto” si figuri...».

Il quotidiano per cui ha lavorato...
«Sì, per vent’anni. Io sono emiliana, la mia storia politica è socialista. Ho sempre votato per i radicali e poi negli anni sono passata in Forza Italia. Ma non sono mai stata di destra. Né tantomeno fascista. La campagna sull’innocenza dei Nar fu un’operazione nata a sinistra, una sinistra di sicuro diversa da quella del Pci».

Quella sinistra che ai tempi formò il comitato “E se fossero innocenti?” lei di recente l’ha richiamata alle armi, invitandola a ribadire le tesi dell’epoca. Qualcuno ha risposto all’appello?
«No, non so nemmeno se esista ancora quel tipo di sinistra. Ora la corrente della Magistratura democratica che era fortemente garantista mi pare tutta schieratissima dall’altra parte. “Il Manifesto” stesso ha cambiato linea. I radicali si occupano principalmente della condizione dei detenuti. Anche al centro, nessuno osa prendere posizione sul tema. Si immagini se dentro Forza Italia, o Italia Viva, qualcuno aprisse bocca per mettere in dubbio i colpevoli di Bologna. Gli darebbero subito del fascista, nemmeno fossimo sotto Stalin. Sì, c’è ancora qualche giurista come Davide Steccanella, avvocato degli “impresentabili” Cesare Battisti e Renato Vallanzasca, uomo di sinistra eppure convinto dell’innocenza di Fioravanti e Mambro. Ma la voglia di battersi per la verità secondo me non c’è più».

Ecco, questo è interessante. Lei parla di ricerca della verità. Perché, se fosse vero ciò che sostenete da sempre, i colpevoli di quella strage sarebbero ancora a piede libero. Non le pare inquietante?
«Vede, io non so chi abbia piazzato quella bomba, non so quanto abbiano senso le altre piste, come quella palestinese, ma sono certa che i responsabili non siano quelli lì. Quando ho iniziato ad occuparmi della strage non sapevo neanche chi fossero Mambro e Fioravanti. Di sicuro non possono essermi simpatici visti i crimini di cui si sono macchiati. Certo so anche che il loro modus operandi era diverso: colpirne uno per educarne cento. Non colpirne cento, a casaccio, gettando la bomba nel mucchio. I loro obiettivi erano politici: o magistrati o giornalisti. Non passanti. E poi non è mai stato chiarito un movente serio. All’epoca sarebbe stato facile anche per noi del “Manifesto”, per il fronte di intellettuali composto dalle Rossanda, dai Pintor, dai Magri, Natoli, Caprara, Castellina fare leva sull’antifascismo. Era una sinistra anche “estrema” semi concede il termine. Ma anziché trincerarsi dietro l’antifascismo scelsero di studiare le carte freddamente fino a decidere di giudicare colpevoli e innocenti “oltre ogni ragionevole dubbio”».

 

 

 

Oggi il dubbio è un lusso che non viene più concesso...
«Nel 1990 quando Mambro e Fioravanti vennero assolti in appello successe il finimondo. Da allora non si è più potuto parlare di innocenza. Oggi a chiunque si mostri dubitativo viene risposto di “fare i nomi” dei veri colpevoli, prima di scagionare i Nar. Ma non è così che si deve procedere, se vogliamo uscire dallo scontro. Io credo che se gli imputati avessero trovato un giudice coraggioso come Michele Morello, quello che assolse Enzo Tortora, in appello sarebbero stati assolti anche loro. E io non voglio generalizzare, perché di giudici seri ce ne sono. È una roulette russa purtroppo».

Ora però non solo non si evita lo scontro, ma diventa sempre più acceso, secondo lei perché?
«Be’, c’è stata Tangentopoli ad esempio. È nato il giustizialismo più spinto. Anche la politica è cambiata. Non c’è più la trasversalità. Né a destra né a sinistra. Ecco perché sento la mancanza di un forte partito radicale. C’è chi sostiene che l’etichetta di “strage fascista” serva a risarcire la città ferita di Bologna. Ma questo modo di fare produce solo veleno. Il fatto che non si possa mettere più in discussione nulla senza finire nell’etichetta fascista o antifascista è tossico. Quando sento dire che la Meloni è fascista mi viene da ridere. È cambiato il mondo. È assurdo. Posso capire quelli della mia generazione che hanno retaggi familiari di un certo tipo, o che hanno una prossimità storica con determinati fatti. Ma i giovani proprio non li comprendo. Dovrebbero avere la capacità di andare oltre tutto ciò».

 

 

 

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