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Garlasco, il buco nero: tutti gli errori dei giudici

Dalla responsabilità civile delle toghe alla prassi bestiale del processo mediatico: questo caso è la cartina di tornasole della magistratura italiana
di Daniele Capezzone lunedì 26 maggio 2025

3' di lettura

A partire dal caso Garlasco, ma ben al di là di quell’abnorme vicenda, troppe storie della malagiustizia italiana ci offrono almeno due considerazioni da svolgere. La prima ha a che fare con il necessario rilancio della responsabilità civile dei magistrati, già votata (anzi, stravotata) dagli italiani nel referendum voluto da Enzo Tortora e Marco Pannella nel 1987, ma poi – in Parlamento – attenuata, per non dire annullata.

L’80% degli elettori chiesero infatti la responsabilità civile diretta del magistrato che avesse agito con dolo (cioè con cattiva intenzione) o con colpa grave (cioè con grave negligenza, imperizia, imprudenza), ma la legge Vassalli, approvata dopo il plebiscito referendario, tradì la sostanza della volontà popolare, introducendo solo una pallida responsabilità indiretta: il cittadino deve fare causa allo Stato che poi (forse, quindi praticamente mai) si rivale entro certi limiti sul magistrato.

E siamo ancora lì. Non si capisce per quale ragione qualsiasi altro professionista debba rispondere degli errori commessi, mentre per i magistrati questo non debba praticamente valere. I magistrati capaci e in buona fede non avrebbero nulla da temere: dovrebbe invece preoccuparsi chiunque abbia agito, agisca o agirà in modo fazioso o scorretto. Nel 2021-2022 ci riprovarono meritoriamente Matteo Salvini con la Lega e il Partito Radicale, proponendo una nuova richiesta referendaria: ma una decisione sconcertante della Corte Costituzionale decise l’inammissibilità del quesito.

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Mi auguro davvero che, nell’ambito della sempre più necessaria riforma della giustizia (che in questa legislatura sta finalmente avanzando), ci sia spazio anche per un confronto su questa specifica questione, su cui il consenso dei cittadini è stato ed è enorme.

La seconda considerazione – se possibile ancora più inquietante – ha a che fare con la prassi bestiale del “processo mediatico”, a cui tutti ci siamo abituati e piegati. Diciamolo chiaramente: prim’ancora di una condanna in un’aula di tribunale, il malcapitato di turno - una volta sotto accusa - si ritrova già ad essere “mostro conclamato” per il trattamento mediatico che riceve.

Diciamocelo chiaramente: questo meccanismo infernale illustra un rapporto ormai trentennale tra procure e organi di informazione, il legame tra chi è in possesso di notizie ultrasensibili e chi può pubblicarle, con uno “scambio” che ha queste caratteristiche: zero fatica (basta il copia e incolla), alto rendimento, immunità sul piano legale. E il conto chi lo paga? Lo sventurato che si trova a essere accusato.

Non giriamoci intorno: se un’indagine dura mesi e mesi prima del processo, e se – in tutta quella fase – circola una sola versione, peraltro dotata di una potenza suggestiva enorme, il diritto alla difesa risulta distrutto nella sostanza prim’ancora che il percorso giudiziario inizi, cioè prim’ancora che gli avvocati possano toccare palla. L’accusato è completamente solo e nudo contro procure e media. E ovviamente ha già perso, anzi è già morto. Una ricerca di qualche tempo fa dell’Unione delle Camere Penali, analizzando migliaia di articoli di stampa sulle più diverse vicende giudiziarie, ha concluso che, nella fase delle indagini, la difesa non ha a disposizione più del 2% dello spazio: c’è una sola voce che possa essere ascoltata, una sola versione che possa essere conosciuta e diffusa. E la tv fa il resto, con una soverchiante potenza emozionale.

Questa situazione è insostenibile. Sarà bene che i media ricordino che i poteri da sottoporre al vaglio critico non sono solo due, cioè l’esecutivo e il legislativo, ma che pure l’attività dell’ordine giudiziario dovrebbe essere adeguatamente scrutinata. E anche l’opinione pubblica deve allenarsi a dubitare: oggi esiste solo il “mercato della colpevolezza”. Occorre che alcuni coraggiosi aprano – per così dire – il “mercato del dubbio”. In questo, va detto, i social non aiutano: ci siamo tutti abituati alla ricerca dei like, del consenso, e – al contrario – il dissenso e le posizioni controcorrente sono temute, sono rischiose, possono procurare isolamento. Che aspettiamo ad accorgerci di essere su una china pericolosa?

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