L'Italia ha un grosso problema da sempre, accentuatosi ultimamente per una sorta di involuzione democratica delle forze di opposizione. La nostra politica è infatti fortemente ideologizzata ed è praticamente impossibile dar corso ad un confronto vero a livello di partiti e di opinione pubblica, basato su fatti concreti e non su chimere. È sudi essi infatti che sarebbe auspicabile dividersi, essendo efficace che si abbiano opinioni diverse e persino contrapposte su come affrontare i problemi. È questa, in fin dei conti, l'essenza della politica democratica. Da noi, per fare un esempio, piuttosto che ragionare sui contenuti di una proposta di legge, ci si pone quasi sempre e solo la domanda da chi proviene ea quali secondi e reconditi scopi essa risponde.
Insomma non un approccio laico e maturo alle questioni sociali, ma la riproduzione di un'eterna lotta fra guelfi e ghibellini. Una prova da manuale di questa situazione la si sta avendo in questi giorni con i commenti che fanno seguito all'approvazione in Parlamento di una riforma della giustizia che si propone di introdurre nel sistema alcuni principi di riequilibrio fra i poteri e gli ordinamenti dello Stato e che ora dovrà essere sottoposta al giudizio dei cittadini attraverso referendum popolare. È facile prevedere che da qui alla primavera, quando è prevista la consultazione, i toni si faranno ancora più accesi anche se difficilmente si avvierà un confronto serio sui cambiamenti che essa può portare o sulle conseguenze che avrà.
D'altronde, la stessa dinamica si riprodusse con l'ultimo referendum costituzionale nel 2016, quando i contenuti della riforma proposta da Renzi passarono in secondo piano e la consultazione si tramutò in un giudizio complessivo sull'operato del governo da lui presieduto. Lasciando stare gli interventi più sguaiati, che arrivano a parlare di pulsioni autoritarie e di una vera e propria “emergenza democratica” da fronteggiare con una nuova resistenza o la “rivolta sociale”, fa specie oggi osservare come anche politici di lungo corso, come Rino Formica, o magistrati di indubbio carisma, come Nicola Gratteri, non si tirino fuori da una logica che porta a sorvolare sul merito delle domande imbandendo una sorta di processo alle intenzioni.
Se Gratteri afferma, in una intervista al Corriere della sera, che lo scopo vero del governo sarebbe quello di mettere sotto controllo i magistrati, Formica arriva addirittura a individuare, in un articolo sul Domani, in un attacco alla Costituzione il “vero obiettivo” di un governo che utilizzerebbe a questo scopo il “grimaldello referendario”. Il vecchio leader socialista paragona poi la nostra situazione a quella successiva al delitto Matteotti, dicendo che allora «i partiti di opposizione avrebbero commesso un chiaro errore politico se avrebbero aperto una trattativa» con un Mussolini intenzionato a modificare l'ordinamento giudiziario.
Sempre in questi giorni, molti commentatori osservano che al governo converrebbero tenere un profilo basso proprio per non contribuire alla politicizzazione nel senso ideologico di una questione così importante. In verità, i toni bassi converrebbero al Paese intero, che sembra soffrire ancora di immaturità democratica, imbrigliato in una politica ideologica di stampo novecentesco mentre il mondo corre e chiama a nuove e difficili sfide. La destra farebbe un sevizio a tutti gli italiani se, con le sue scelte, contribuisse a laicizzare la politica del nostro Paese.