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L'immigrato morto di freddo in questo luogo, vittima dei cialtroni che tifano per l'invasione

Andrea Tempestini
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Sotto le coperte. In un cantiere abbandonato della periferia di Torino, tra vestiti, stracci e quello che rimane di vecchie lenzuola e chissà cos'altro. Sperava di aver trovato un rifugio dove stare al riparo dal freddo e dal caos della città ma quella enorme apertura sul muro di mattoni grezzi ha lasciato passare il vento gelido della morte. Forse non se n'è nemmeno accorto di morire questo «ragazzo di trent'anni, pelle scura, africano». Deve essere stato come addormentarsi. Qualche brivido, gli occhi che si chiudono, le forze che se ne vanno. È la morte, indolore e lenta, per assideramento. Il sangue confluisce sugli organi vitali, va a proteggere il cuore. Così il resto del corpo comincia a perdere sensibilità e piano piano anche la coscienza se ne va. Poi, a 24 gradi, si muore. Nessuno sa il nome del «ragazzo di trent'anni, pelle scura». E forse non si saprà mai. È solo uno dei tanti clochard morti di freddo, solitudine e quant'altro. Uno dei tanti immigrati sbarcati, accolti e presto dimenticati. «Stava male, abbiamo chiesto aiuto alla Croce rossa, ma non sono venuti», racconta alla Stampa Adil, un giovane marocchino che lo conosceva: «Stava male da due giorni», sottolinea. «Non si alzava più dal suo letto. Era malato. Non sono venuti finché non è morto». Solo allora è arrivato il medico, dice. Ne ha constatato il decesso e stabilito: «Probabile causa, assideramento». «Da noi non si è presentato», si giustifica il presidente della Croce rossa del Piemonte Graziano Giardino: «Sono venuti da noi due ragazzi, hanno detto che dentro quella catapecchia c'era una persona che stava dormendo. Ma da noi lui non è venuto. E non si può chiedere ai nostri operatori di andare di notte dentro un posto del genere. È una questione di sicurezza. Noi siamo responsabili del nostro compound». Già. Il compound e la catapecchia. Due facce della stessa medaglia. Si trovano uno a pochi metri dall'altra. Il compound è «un campo di emergenza sociale», «un centro di accoglienza notturno» con tutti i crismi legali. «Apre alle 19 e accoglie fino a esaurimento posti, comunque non oltre le 23. Ciascun ospite viene registrato fornendo generalità e nazionalità. È vietato bere e mangiare nel dormitorio». Il dormitorio è composto da diversi container, quando «il ragazzo di trent'anni, pelle scura, forse africano» è morto c'erano dieci posti liberi. Lui però stava nella «catapecchia», uno scheletro di un edificio di due piani davanti alla piscina comunale. La «catapecchia» è composta da qualche muro di cemento e mattoni in calcestruzzo accatastati a formare muri fragili. Dentro ci sono un numero indefinito di escrementi, decine di vestiti marci, umidi, sporchi. Offre qualche rasoio, pezzi di specchio per radersi meglio, un avanzo di profumo. Si può consultare anche un libro d'arte, ché non si sa nemmeno come ci sia finito lì un libro d'arte. Tant'è. Nella catapecchia non ci sono limiti di orario. E si può bere, mangiare e fumare. Forse per questo vengono tutti qui. «Il ragazzo di trent'anni, pelle scura, forse africano» nel compound, raccontano, non ci ha mai messo piede. E come lui tanti altri immigrati che hanno scelto di vivere in questo cantiere dimenticato da Dio dove nemmeno pregare di avere una vita migliore servirebbe a qualcosa. Qui si muore di freddo e di solitudine. Punto. Qui come in tutte le catapecchie sparse per il nostro Bel Paese, dove anime buone accolgono, anime false promettono - «risorse», «diritti per gli immigrati», «ius soli» eccetera - e vite senza nulla da perdere, se non la speranza che gli diamo, muoiono senza nemmeno un'anima pia che vada in loro soccorso. Perché così vanno le cose. Spalanchiamo le porte agli immigrati, tutti quanti, anche quelli che non ci possiamo permettere, quelli che non riusciamo ad aiutare. Anche «il ragazzo di trent'anni, pelle scura, forse africano». Quelli che vanno a finire nelle catapecchie di mattoni grezzi dove basta un maledetto buco a fare entrare il vento gelido della morte. Che crudeltà. di Eliana Giusto

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