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Noi bergamaschi figli di Neanderthal e felici di non essere come voi

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Giovanni Longoni
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La notizia che i valligiani bergamaschi possiedono un buon numero di geni dell’uomo di Neanderthal è andata sulle prime pagine dei quotidiani nazionali e ha suscitato l’ilarità di molti non orobici. A Bergamo invece la cosa è stata presa sul serio, non solo perché legata al massacro provocato dal Covid. Il fatto è che a noi piace finalmente scoprire di non essere come voi. Ci avete sempre dato dei preumani, barbarici, avete sostenuto che parliamo un idioma incomprensibile e truce; anzi peggio: dite che siamo come i crucchi. E noi tutti contenti. Come si spiega? Bè innanzitutto col fatto che siamo neanderthaliani.

 

 

 

A CONFRONTO COI BRESCIANI

Ma c’è dell’altro. L’evento clou dell’anno di Bergamo e Brescia capitale culturale è stato il decesso e successiva santificazione di Carlo Mazzone. La nota vicenda cui è legata la memoria dell’allenatore romano ha spinto una mia amica pavese a chiedermi lumi sul cosiddetto odio fra bergamaschi e bresciani. Risposta difficile per me che, tanto per cominciare, non odio né Brescia né la sua squadra di calcio (ha già tanti problemi). Senza dubbio fra le due città c’è una storia lunga di contrapposizione. Nel medioevo Brescia, guelfa, era alleata di Milano; Bergamo, altrettanto guelfa, faceva però sponda con la ghibellina Cremona e l’Impero. Forse per questo ci piacciono i tedeschi, gli altoatesini, gli svizzerotti e un po’ cerchiamo di copiarli. Brescia invece, mi sembra una città che vuole essere italiana. È una piccola Milano (c’è persino la metropolitana). I suoi abitanti non mi pare si facciano troppi problemi circa la loro identità. Lavorano, molto, e si divertono, anche di più. Eppure da un punto di vista etnico le due popolazioni non potrebbero essere più simili. Stessa lingua, oggi chiamata, dialetto. Stesse facce. Medesima polenta.

QUESTIONI DI OSSA

Mio padre raccontava una storiella per spiegare la differenza fra “noi” e “loro”. Ci sono due cani, uno di Bergamo, l’altro di Brescia. Vedono un osso per terra e scattano. Il bresciano - più prestante e veloce - arriva primo, afferra la preda e comincia a pavoneggiarsi davanti all’altro. Il bergamasco gli fa: «Da dove vieni tu?». Risposta: «Da Brescia». E l’osso gli casca dalle fauci per essere immediatamente addentato dal contendente. Adesso tocca al bergamasco fare un po’ di scena e il bresciano allora sbotta: «Tu invece di dove sei?». «De B-r-g-h-m», ringhia l’orobico dirignando I denti. Morale: il bergamasco «al móla mia l'oss», non molla mai l’osso. Non dite che conoscete tanti di noi che si sono arresi senza combattere. Non è questo il punto. È che noi, fin da piccoli, ci sentiamo ripetere queste cose. Brescia è più grande, vi comanda, come in tutta l’italia comunale, il patriziato urbano. Bergamo, se si guarda a Città Alta, sembra aristocratica ma è profondamente plebea. E puritana. È un po’ la “città sulla collina” di John Winthrop, anche se non vuole dare lezioni al mondo. È musona, come il manzoniano Grignapoco. Brescia è il suo papa Montini, di buona famiglia. Bergamo ha il contadino Roncalli. Da una parte Aldo Busi, dall’altra Ermanno Olmi. Da una parte il tentato delitto degli amanti di Capriolo, dall’altra il mostro di Leffe, bancario che sterminò la famiglia a martellate e murò i cadaveri. Non si sa perché. Le cose stanno cambiando, forse, per colpa del turismo e di Orio al Serio. Ma noi restiamo attaccati al luogo comune sulla nostra identità. Cosa possiamo farci? Siamo neanderthaliani, póta. 

 

 

 

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