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Jihad nelle carceri italiane: i 500 radicalizzati pronti a colpire

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Il terrorista islamico dell'attentato a Charlie Hebdo a Parigi, detenuto fino a una settimana fa nel carcere di massima sicurezza di Corigliano Rossano, è stato espulso. Perché ancora pericoloso. Ma i numeri riportati in un articolo su il Giornale sugli estremisti islamici nelle carceri sono inquietanti. Negli istituti penitenziari italiani "ci sono 500 islamici a rischio radicalizzazione tra i 15mila di fede musulmana. Tra questi una cinquantina sono in cella con l’accusa di terrorismo internazionale nelle sezioni di alta sicurezza di Rossano, Sassari e Nuoro". Aldo Di Giacomo, segretario del sindacato Spp della polizia penitenziaria, lancia l'allarme: "Sono sempre più numerosi gli episodi di detenuti di fede islamica che in carcere manifestano comportamenti tipici della radicalizzazione islamica, come inneggiare agli attentati di matrice islamica e mostrare apertamente odio verso l’Occidente".  

Secondo quanto emerge dalla relazione del ministero di Giustizia del 2018 "gli imam nelle carceri sono 97, i convertiti durante la detenzione sono 44 e quelli che si sono proposti di fare le veci dell’imam tra i compagni sono 88. Più di 230 detenuti sono sottoposti al primo livello, cioè hanno manifestato atteggiamenti che rilevano forme di proselitismo, radicalizzazione e reclutamento. Un centinaio si sono rivelati molto vicini alle ideologie".

 

 

Elettra Santori, jihadologa, consigliere scientifico della fondazione Icsa (Intelligence culture and strategic analysis). avverte: "Chi ha già commesso crimini può essere predisposto a un’ultra radicalizzazione" perché "ha familiarità con la violenza e dimestichezza con le armi. E poi va considerato il nesso prigione-terrore: il carcere aumenta il risentimento nei confronti della società, l’odio verso l’Occidente che ha tradito le aspettative dei migranti. Le condizioni degli istituti penitenziari alimentano la retorica dell’Islam negato e tutto questo fa maturare potenziali jihadisti". C'è poi lla "taqiyya", cioè "la possibilità di nascondere o addirittura rinnegare esteriormente la fede, di dissimulare l’adesione a un gruppo religioso". "Questa dissimulazione per scopi strategici può andare avanti anche per anni. Quello jihadista è un progetto a lungo termine", conclude la Santori: "Da qui la profonda pazienza di chi sembra poco radicalizzato o perfino integrato e che poi di colpo si rivela pronto ad andare in missione in nome di Allah. E quei segnali dissimulati vanno colti".

 

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