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Roberta Bruzzone dopo il caso Cecchettin: come riconoscere un amore tossico

Claudia Osmetti
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Quali sono i segnali che una relazione sta diventando tossica? Che l’amore (se c’è stato) è finito e nel peggiore dei modi? I campanelli d’allarme (ci sono sempre) possono essere banali: è vero. Ma è anche facile dirlo col senno di poi: ma-come-hai-fatto-a-non-accorgertene? Il problema è che prima hai confuso un gesto violento per un atto d’affetto. Oppure lo hai minimizzato, non ci hai fatto caso, hai pensato è-solo-un-momento-di-rabbia, è-il-suo-modo-di-dimostrarmi-che-mi-vuol-bene. Invece no. Le dinamiche son quasi sempre le stesse, i comportamenti son quasi sempre uguali, le rinunce e i divieti. Lo schermo di un telefonino controllato compulsivamente, la proibizione a farti uscire con le amiche o coi parenti, quel senso di colpa che ti attanaglia, ti fa sentire inadeguata quando tu, di colpe, di inadeguatezze, non dovresti proprio averne.

Roberta Bruzzone, la criminologa Roberta Bruzzone, nella sua carriera di fatti come quello (drammatico) di Giulia Cecchettin ne ha purtroppo visti tanti. Troppi. «Il suo caso, purtroppo, racchiude un po’ tutte queste avvisaglie di pericolo», dice, «cominciando da una forma di oppressività lampante: questa ragazza non era neanche libera di laurearsi quando voleva perché secondo Filippo Turetta (il fidanzato, ndr) avrebbe dovuto aspettarlo, altrimenti si sarebbe sentito in difficoltà». Non è casuale che non gliel’abbia permessa proprio, la festa di laurea: «Per lui segnava una sconfitta, era un elemento visibile a tutti di differenza tra lui e lei e che faceva emergere lei come quella migliore. È questo che Filippo non ha tollerato, molto più dell’abbandono». Nel casi come quello di Giulia, per queste ragazze che pensavano fosse amore e invece era qualcos’altro, era violenza e costrizione, c’è «un’istanza di controllo totale su tutto ciò che fanno e che non risparmia nessuna delle loro aree di funzionamento: vale per le amicizie, per quello che viene fatto o semplicemente detto, alle volte scatta una verifica incrociata su quello che raccontano». Dove-sei-stata? Con-chi-eri? Chi-hai-visto? «Alla base di tutto questo c’è una personalità profondamente insicura, immatura e incapace di tollerare i confini dell’altro. Male vittime, spesso, sottovalutano questo controllo: lo fraintendono, lo leggono come un interesse. No, l’interesse è un’altra roba. Io posso interessarmi alla vita di qualcuno e tenerci che tutto vada bene, ma la sorveglianza serrata è una patologia». Le telefonate continue. Le pretese di video-chiamate per capire se effettivamente la ragazza è dove dice di essere.

La richiesta di non uscire quando invece il fidanzato lo fa. La richiesta di consegnare le password del proprio cellulare quando una domanda simile, dall’altra parte, non viene neanche posta: «Sono tutte elementi anomali. Anche nella fase più impegnativa di un rapporto, che è quella iniziale, si tratta di elementi che depongono per un’ossessione concentrata sul controllare l’altro. Come il ricatto emotivo». Se-mi-lasci-mi-uccido; se-vai-a-studiare-altrove-mi-ammazzo: «Una personalità sana può dispiacersi, certo, se una relazione a cui tiene rischia di finire, ma non direbbe mai cose del genere». Il controllo si riversa anche sul piano economico, specialmente quando comincia ad esserci una sfera di autonomia. E poi, ancora, le scenate di gelosia («perché si sostiene di aver sottratto tempo alla relazione») oppure «l’impossibilità a prendere decisioni senza prima passare da questi soggetti, per cui bisogna essere in qualche modo “autorizzati” a fare le proprie attività» e il desiderio, di alcuni, a «voler sempre avere a che fare con la vita della vittima, imponendole la propria presenza anche quando lei ha espresso la volontà di voler star da sola: i narcisisti maligni manipolatori, i più pericolosi», spiega Bruzzone, «sono profondamente competitivi anche con chi gira attorno alla propria vittima. Mettono subito in campo dinamiche volte a isolarla per non avere termini di paragone scomodi e fare in modo che, da sola, sia più facile da gestire».

Infine la paura: «È un segnale importante. Se qualcuno con cui stai ti fa paura, qualcosa di abbondantemente oltre ogni limite è già avvenuto. Tutti questi segnali sono ampiamente oltre la barriera di un rapporto sano. Ci dicono che dall’altra parte c’è una personalità distorta». E allora come si agisce? «Bisogna insegnare anche ai genitori a coglierli. Un figlio che ha queste problematiche non è un bravo ragazzo, è disturbato e occorre chiamare le cose col loro nome. Ma bisogna anche spiegare alle ragazze che non lo possono salvare. Possono salvare solo loro stesse. Primo perché questi soggetti non si mettono in discussione da soli, e secondo perché è una materia da specialisti. L’unica cosa che possono fare loro è allontanarsi il più rapidamente possibile. Dobbiamo stare attenti a quella che normalmente viene spacciata per normalità: occorre insegnare a questi figli cresciuti con un senso di onnipotenza pericoloso», chiosa l’esperta, «a tollerare i no fin da piccoli, altrimenti al primo no che ricevo diventano delle bombe a orologeria».

 

 

 

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