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Baby Gang, ecco quando torna sul palco il trapper condannato

Pietro Senaldi
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Ecco un uomo imperturbabile. Baby Gang, rapper cattivo fin dall’esordio- il suo primo album si intitolava “Delinquente” - un mese fa è stato condannato a cinque anni e mezzo per tentata sparatoria e violenza e ieri ha annunciato il suo ritorno ai concerti, il 6 maggio prossimo. Consigliamo agli organizzatori di montare dei metal detector agli ingressi. Per chi non si intendesse di musica giovane, il soggetto in questione è un drago nel suo campo, roba da miliardi di visualizzazioni sui social. Non proprio una Chiara Ferragni versione trapper, ma poco ci manca. Ma Baby Gang- o forse sarebbe più opportuno convertisse il proprio nome d’arte in Baby Bang-Bang, vista la passione per le armi da fuoco - ha anche una fedina penale non indifferente. Tra i precedenti figura anche una condanna per quattro rapine a quattro anni, scontata in comunità, grazie al braccio non violento della legge, quello agli antipodi con il suo stile di vita e i suoi testi canori.

Intendiamoci, non è perché è un delinquente patentato, come si definisce, che non ha diritto a fare concerti. Tutt’altro, finché è a piede libero la legge glielo consente e noi ci limitiamo a non andare ad ascoltarlo. Solo che il combinato disposto tra i suoi successi e i suoi reati, negli stessi giorni in cui abbiamo scoperto che la fatina Chiara Ferragni è capace di fare i milioni non raccontandola troppo giusta sulle donazioni per i bambini malati di cancro e la famiglia di Soumahoro, in Parlamento per difendere gli immigrati neri, finisce sempre più nei guai perché accusata di comportamenti da negrieri, viene spontaneo chiedersi come la nostra società scelga i suoi miti.

 

 

 

Lo sappiamo. In musica quello del maledetto è un ruolo che funziona sempre e a censurare chi ci gioca, si perde sempre. Negli anni Settanta la Bbc censurò “God Save the Queen”, manifesto dei Sex Pistols contro la regina Elisabetta, e la canzone balzò al primo posto in classifica. Vasco Rossi fondò la sua fortuna inneggiando alla sua “Vita spericolata”, che lo portò in carcere ma lo consacrò anche come star assoluta, sebbene dopo si diede una bella calmata. Però c’è una bella differenza tra loro e Baby Bang-Bang, e non solo per qualità artistica, che il successo è questione di gusti e di tempi...

I trapper moderni sostengono di cantare e raccontare la vita, compito degli artisti, ma la loro denuncia sociale non è un canto di rottura, una provocazione, un’epica giovanile e disadattata, come quella di molti cantanti che li hanno preceduti. C’è in Baby Gang e in molti altri una chiara scelta del crimine come estetica, come cifra distintiva, e quando questo passa dalle canzoni alle loro vite reali, cosa che non accade di rado, è lecito domandarsi se esista in loro un confine tra arte e realtà, come esiste per esempio per i Rolling Stones, arrivati a cantare a squarciagola, saltare e ballare a ottant’anni non certo facendosi di cocaina tutti i giorni. C’è uno straniante cortocircuito in quest’epoca di moralismo imperante, in televisione, sui social, nei giornali.

 

 

 

Bisogna stare attenti ai concetti che si esprimono, alle parole che si scelgono, perché tutti sono pronti a condannare senza prima guardarsi allo specchio, ma al successo si perdona sempre tutto. Baby Bang Bang non è un ribelle, come i cantanti suoi predecessori, non ha in testa una società alternativa, insegue tutti i miti di successo e consumismo del mondo che gli hanno consegnato i suoi padri - quindi, ahimé noi- propone, con l’aggiunta non indifferente di sdoganare il crimine come mezzo per raggiungerli. Non è troppo diverso dalla logica di Chiara Ferragni: un milioncino di onorario val bene un errore di comunicazione. Come dire, comunisti con il Pandoro.

 

 

 

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