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Ex Ilva, perché va fermata la decrescita infelice

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Quando, immediatamente dopo il sequestro degli impianti di Ilva, il presidente della Regione Puglia e i parlamentari della Regione avevano chiesto a Mario Monti un intervento del governo, avevamo individuato un percorso perla riqualificazione degli impianti in continuità produttiva sulla base dei più avanzati standard tecnologici. Ricordo i fatti: -Il 26 ottobre 2012, sulla base delle perizie trasmesse dalla Procura della Repubblica di Taranto e dopo un serrato confronto con Bruno Ferrante nominato presidente di Ilva, ho rilasciato la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale (Aia), che prevedeva l’impiego da subito delle migliori tecnologie disponibili, che sarebbero diventate vincolanti in Europa nel 2016. Gli interventi dovevano essere conclusi entro il dicembre 2015. Il 15 novembre 2012 Ilva aveva formalmente accettato di dare attuazione alle disposizioni di Aia, con un investimento di circa 3 miliardi di euro.

- Il 26 novembre 2012 il Gip di Taranto aveva sequestrato “come corpo del reato” i prodotti finiti, già pronti per la vendita, per un valore di 1 miliardo, destinato ai primi investimenti per l’attuazione del programma di risanamento. In questo modo le disposizioni dell’Aia e il piano di risanamento erano stati bloccati sul nascere.

- Il 3 dicembre 2012, per sbloccare il sequestro e consentire continuità produttiva e risanamento ambientale, il governo era intervenuto con un decreto legge, convertito dal Parlamento il 24 dicembre 2012 con la legge 231.

- Ma la Procura della Repubblica di Taranto e il Gip avevano sollevato obiezioni di incostituzionalità e bloccato l’applicazione della legge e l’impiego delle risorse assegnate per il risanamento.

- Il 9 aprile 2013 la Corte Costituzionale aveva respinto le eccezioni di incostituzionalità e autorizzato l’applicazione della legge. Il Gip ha continuato a disapplicare la legge prendendosi il tempo per la lettura del dispositivo della Corte Costituzionale fino a maggio 2013, ovvero in coincidenza con la fine del Governo Monti. Va chiarito che le azioni del Governo e della Corte Costituzionale non avevano alcuna interferenza con il processo in corso, ovvero non costituivano un salvacondotto per i presunti colpevoli. La sequenza dei fatti tra la fine di novembre 2012 e maggio 2013 ha determinato difficoltà e ritardi nell’avvio del piano di risanamento, che hanno costituito la motivazione “formale” per il commissariamento dell’Ilva nel maggio 2013.

TROPPI RINVII
Nelle motivazioni formali del Governo, il commissariamento aveva l’obiettivo di accelerare i tempi del risanamento ambientale e rafforzare la competitività di Ilva. Invece, gli interventi che dovevano terminare alla fine del 2015 sono stati rinviati più volte dai Governi, per ora fino al 2023. Ovvero, i ritardi di settimane nelle prime attività del piano di risanamento ambientale determinati dal blocco dei prodotti finiti e delle risorse, sono stati moltiplicati per anni. E Taranto e l’Italia hanno perso l’occasione di avere – a partire da gennaio 2016 - l’acciaieria più grande d’Europa “sostenibile” e competitiva.

Dal 2018 il “combinato disposto commissari-Arcelor Mittal” determinato dalle modalità di assegnazione di Ilva alla multinazionale franco-indiana, e dalla soppressione dell’immunità, ha progressivamente aggravato la crisi con la perdita di mercati e occupati. La partecipazione di Invitalia non ha migliorato la situazione. Dal 2013 ad oggi la riduzione della produzione di Ilva ha portato perdite all’economia italiana stimate in circa 30 miliardi, corrispondenti a un punto e mezzo di Pil.

L’inquinamento è proseguito, e la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha sanzionato l’Italia perché «le misure stabilite dall’Aia del 2012 non sono state attuate». La precarietà delle strutture dell’area a caldo e la scarsa manutenzione degli impianti sono all’origine dell’inquinamento rilevato da Arpa Puglia. Intanto è stato lanciato il progetto per la decarbonizzazione, che in prospettiva dovrebbe fare di Taranto l’acciaieria più grande e più verde d’Europa. Ma senza la riqualificazione degli impianti, per completare il percorso di risanamento ambientale definito 11 anni orsono, la decarbonizzazione è un diversivo perché riguarderebbe un sito destinato alla chiusura in breve termine, inquinato e fuori mercato. Gli investimenti per la decarbonizzazione devono essere paralleli a quelli perla piena funzionalità degli impianti dell’area a caldo, per raggiungere una produzione di almeno 6 milioni di tonnellate l’anno. 

È questo percorso è possibile oggi: è stato autorizzato dalla Provincia di Taranto un progetto dell’impresa italiana “Unità di Misura” avviato nel 2020 per la realizzazione di una piattaforma di lavorazione delle plastiche derivanti dalla raccolta differenziata, per la preparazione di un compound plastico che può essere usato in alternativa al fossile per la produzione di ghisa. Il progetto, cofinanziato dal Pnrr, prevede la sostituzione entro il 2024 di circa 80.000 tonnellate di fossile nella produzione di 1,5 milione di tonnellate l’anno di ghisa. In una seconda fase, il revamping e la messa in produzione di AFO 5 potrà aumentare il potenziale di sostituzione del fossile fino a 300.000 tonnellate nella produzione di 6 milioni di tonnellate, con riduzione sia delle emissioni inquinanti sia delle emissioni di 200.000 tonnellate l’anno di CO2. Se consideriamo che il prezzo attuale del permesso di emissione di CO2 è di circa 90 euro a tonnellata, il risparmio potenziale è di 18 milioni l’anno. 

Inoltre il progetto avrebbe l’effetto non secondario del risparmio di 240 milioni di euro l’anno sulla tassa annuale dell’Italia per la plastica non riciclata. Prima del preridotto, prima dell’idrogeno, a Taranto la raffinazione e l’impiego delle plastiche “a bocca di miniera” è l’occasione da non perdere per invertire il percorso della decrescita infelice e migliorare la qualità dell’ambiente. 

di Corrado Clini
ex ministro dell’Ambiente

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