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La Ferrari si schianta, gli odiatori esultano: l'ultima deriva della cloaca-social

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Giovanni Sallusti
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Ci sono casi di cronaca che sembrano fatti apposta per innescare uno dei peggiori difetti di quel particolare animale che è l’essere umano. Chiamiamolo sociologismo della morte. La tendenza belluina a ricavare da tragedie del singolo (che è sempre “quel singolo”, gridava Sören Kierkegaard) verità universali. Che, essendo farlocche, sono in realtà sfoghi personalissimi, e raramente edificanti. Tarda mattinata di Pasqua, bretella autostradale tra Ivrea e Santhià, provincia di Vercelli. Una Ferrari, modello GTC4 Lusso di colore bianco (dev’essere un dettaglio decisivo, visto che lo riportano in coro siti e giornali), sbanda paurosamente fino a uscire di strada, centrare il guard rail e prendere fuoco. I corpi dei due passeggeri a bordo, un uomo e una donna, sono ritrovati completamente carbonizzati, tanto da rendere ardua l’identificazione.

L’intestatario dell’auto è un 41enne di nazionalità serba, naturalizzato svizzero. Stando ai rilievi, la vettura correva a oltre 200 chilometri all’ora, sicuramente non una condotta di sicurezza, specie in quel tratto, con l’asfalto bagnato. La morale della storia (ammesso e non concesso ci sia, anzi l’ossessione di reperirne sempre una è uno dei tratti distintivi dell’era del rincretinimento social) direbbe più o meno che l’avventatezza scriteriata di un singolo ce ne ha fatti perdere due. Fine, una brutta fine tra le lamiere, non c’è senso e quindi nemmeno potenziale polemica.

ROTTAMI RIGATI
Non fosse che i morti viaggiavano a bordo di una Ferrari, perdipiù modello Lusso. E quindi diventano subito allegoria di qualcos’altro: della ricchezza, della vacuità, se non dell’esplicita criminalità. In ogni caso di una forma perversa e imperdonabile di successo, soprattutto agli occhi di chi non si perdona il proprio insuccesso. È la vecchia storia dell’invidia sociale, che vale al quadrato in un Paese assai digiuno di “spirito del capitalismo”. Ma non c’è bisogno di scomodare Max Weber, basta stare a un’immagine essenziale di Flavio Briatore: «Se un americano vede qualcuno su una Ferrari è uno sprone per guadagnarsela anche lui, se capita a un italiano spesso vorrebbe rigarla». E allora ieri su X e Facebook era tutta una gara a rigare i rottami che restavano di quella GTC4 bianca.

 


«Le auto sportive servono a qualcos’altro?», si chiede qualcuno, teorizzando che l’unica Ferrari buona è la Ferrari accartocciata e infestata dalla morte. «Erano perati», incalza un altro utente illuminato, perché Ferrari uguale quattrino uguale droga, in una concatenazione moralistica, quella sì, allucinata. E poi è un trionfo di vedi quanto i soldi non ti insegnano, ricchi viziati, è la fine che si meritavano (i soldi non sono mai meritati, la morte in compagnia di essi lo è sempre). Fino alla perfetta sintesi del classismo all’incontrario: «Serbo di nazionalità svizzera a bordo di una Ferrari di versione lusso. Immagino facesse un lavoro di quelli onestissimi». Non sappiamo, magari no, quella è la vicenda insondabile del singolo. La regola generale che se ne ricava, invece, è il volto della barbarie contemporanea, poco impegnativa, grondante “mi piace”, al riparo di un nickname. Sostanzialmente, vigliacca.

 

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