I pastori, le cornamuse e le imitazioni fuori tempo

di Marco Patricellilunedì 23 dicembre 2024
I pastori, le cornamuse e le imitazioni fuori tempo
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Oggi è folklore, ieri era invece la voce del Natale che arrivava dai monti verso il mare e verso le città. La portavano i pastori, quelli veri degli Appennini centromeridionali, non i figuranti delle rievocazioni in costume. Tre mesi dopo il settembre della poesia dannunziana, i pastori lasciavano gli stazzi in quota e, arrivati nei centri abitati a valle, davano fiato a zampogne e ciaramelle della tradizione, quella che sopravvive nelle statuine del presepe, anche quelle “made in China”.

Nessuno di loro conosceva la musica, ma ognuno aveva imparato a suonare assieme all’arte di gestire le greggi, mungere pecore e capre e fare il formaggio, un mestiere che iniziava nella più tenera età e accompagnava tutta una vita di rinunce. Fino agli Anni ’70 i canti natalizi erano davvero la colonna sonora della festa più importante della cristianità, i regali li portava Bambin Gesù e non Babbo Natale con l’abito rosso e le renne della Coca Cola, «Jingle Bells» non la intonava nessuno lungo lo Stivale e l’unica concessione che arrivava dall’estero era, ma inconsapevolmente, «Bianco Natal», ovvero «Stille Nacht» di Franz Xaver Gruber, composta comunque nel 1814.

La zampogna, suonata da persone semplici impegnate in un lavoro duro, non consentiva virtuosismi: al massimo si muoveva su due accordi, aveva una base armonica lunga e fissa (bordone), una voce antica e tanta anima. Secondo alcuni furono i legionari romani di stirpe italica a portare questo strumento fino alle brume scozzesi, dove sarebbe rinato in forma evoluta come cornamusa; se sia leggenda o storia, poco importa. Era da sempre lo strumento dei pastori, quello derivato dal flauto, primo esempio di musica diversa dalla voce umana. Dall’aulos dell’antica Grecia alla zampogna italica, che all’Ellade deve il nome derivato dal termine sinfonia adottato pure dai latini. Una pelle di pecora odi capra forniva l’otre da riempire d’aria, e una serie di canne il modo di trarne e fare musica. Tutto parla di vita nei campi, dell’erbal fiume silente di d’Annunzio, e del rito eterno e lento della transumanza. Concetti oggi poetici ma allora di sacrifici, di solitudine, di lotta con i lupi e di simbiosi con i cani da pastore, sotto un cielo di stelle.

Ma a Natale tutto, almeno per qualche giorno, diventava poesia. I pastori non dovevano più vergognarsi in città delle vesti da lavoro, dei giubbotti di lana grezza e dei cappellacci, dei gambali e delle cioce. E neppure di quegli strumenti ingombranti e rustici non ancora accolti nella grande famiglia dei conservatori di musica. Sciamavano, spesso in coppia, lungo vie e piazze e il loro arrivo annunciava l’arrivo del Redentore, con le melodie che si insegnavano alle scuole elementari come patrimonio condiviso, al pari del rito della preparazione del presepe e dell’albero nelle case come nelle aule. Ai pastori si davano monete da 10, da 50, da cento lire, perché regalavano con le loro atmosfere qualche momento di felicità e di festa.

Il tempo è passato, la pastorizia è diventata altro. All’epoca si acquistavano giuncate e formaggi direttamente da chili aveva prodotti, oggi interverrebbero Nas e Finanza. Poi i pastori sono arrivati dal Montenegro, dalla Bosnia, dall’Albania, dalla Macedonia. Oltre a raccogliere il vincastro, il caratteristico bastone dei pastori in arrembante carenza di vocazione, hanno provato a raccogliere anche l’eredità spirituale stringendo al petto le zampogne, ma la musica era quella che era, approssimativa, orecchiata; e soprattutto i tempi erano sbagliati, perché per raggranellare un po’ di pecunia (la parola deriva da pecus, pecora), si suonava «Tu scendi dalle stelle» anche in estate e in autunno, in tournée estemporanee. Poi sono spariti anche i pastori d’importazione.

E così nelle città non solo il Natale arriva prima, giusto il tempo di smaltire l’anglosassone e semipagana Halloween, ma le musiche sono quelle delle pubblicità ossessive nei centri commerciali, dove non c’è spazio per il piccolo mondo antico.