Il Giubileo dei giovani celebrato da Leone XIV, con la limpidezza del suo magistero centrato su Cristo e sull’eternità, ha di colpo proiettato la Chiesa nel futuro, consegnando ormai al passato le vicende degli ultimi quindici anni. Nella Chiesa si ha la sensazione di essere usciti da un tunnel di confusione e incertezza pastorale e magisteriale, cosicché (seppure con molte cose da ridefinire nel rapporto con il mondo) si comincia a riflettere sugli eventi ecclesiali vissuti con la distanza critica che permette di storicizzarli e anche di ricavarne lezioni per il domani.
È ciò che ha fatto monsignor Nicola Bux, già collaboratore di Benedetto XVI, con Vito Palmiotti, nel libro Realtà e utopia nella Chiesa, edito da Omni die (reperibile sul sito della Nuova Bussola quotidiana e su Amazon). Nell’appendice del libro Bux pubblica la lettera che scrisse al “Papa emerito” il 19 luglio 2014 e la risposta di Ratzinger datata 21 agosto 2014. Conoscevo da anni questi due testi che avevo avuto in via riservata. Ora che sono pubblici possono essere analizzati. In sostanza, Bux, raccogliendo le osservazioni critiche di varie personalità (compresi dei cardinali che erano stati molto vicini a Benedetto XVI), poneva alcune domande al “Papa emerito”.
La prima era questa: «Secondo alcuni storici autorevoli, la Sua rinuncia ha scosso la struttura del ministero petrino, per cui non si sa cosa potrà succedere». Non riguardava il diritto di un Pontefice alla rinuncia, che è ovvio, ma le motivazioni che non sembravano quelle gravi previste dalla letteratura canonistica. La rinuncia lasciò spaesati i credenti e indusse diversi osservatori a ritenerla una “modernizzazione del papato”, come se fosse un ufficio a termine. Hans Kung parlò di “demistificazione del ministero pontificio”.
La seconda domanda era questa: «Secondo altri teologi, Ella non può ritenere di aver lasciato solo l’esercizio del ministero e non anche il munus, perché con questo si rischia uno scisma. Né può vestirsi come papa se non lo è più». Poi Bux spiegava che per molti canonisti doveva chiarire che assetto giuridico avesse il “papato emerito”. Oltretutto era stato il direttore della sala stampa vaticana, padre Federico Lombardi, a far sapere che dopo la rinuncia si doveva chiamarlo «Sua Santità Benedetto XVI papa emerito». Lo fece su indicazione verbale del segretario del Papa, monsignor Gänswein.
«Troppo poco e troppo vago perché la questione sia da ritenersi risolta», commentò Sandro Magister. Peraltro, tre giorni prima di questa indicazione, “La Civiltà Cattolica” escludeva tassativamente che potesse ancora chiamarsi “papa” chi aveva rinunciato. Benedetto XVI rispondeva eludendo le domande: ricordava la legittimità della rinuncia – che riguardava sia l’esercizio del ministero che il munus – e liquidava gli «storici autorevoli» e «altri teologici [sic]» citati da Bux dicendo che «secondo me non sono veri storici neppure teologici» (definendoli poi «giornalisti»). Di fatto però era la prima volta nella storia della Chiesa che un Papa rinunciava restando ancora “Sua Santità” e “Papa emerito” e continuando a vestirsi con la talare bianca.
La presenza di due Papi ha alimentato molta confusione. Soprattutto perché lo stesso Benedetto, nell’ultima udienza del 27 febbraio 2013, disse: «Il “sempre” è anche un “per sempre” - non c’è più un ritornare nel privato. La mia decisione di rinunciare all’esercizio attivo del ministero, non revoca questo». Ci fu poi la dirompente conferenza del suo segretario, mons. Georg Gänswein, il 20 maggio 2016, alla Pontificia Università Gregoriana: «Prima e dopo le sue dimissioni, Benedetto ha inteso e intende il suo compito come partecipazione al “ministero petrino”. Egli (...) non ha affatto abbandonato questo ministero. Egli ha invece integrato l’ufficio personale con una dimensione collegiale e sinodale, quasi un ministero in comune». E ancora: «Non vi sono dunque due papi, ma de facto un ministero allargato, con un membro attivo e un membro contemplativo».
I teologi furono sconcertati. Però storicamente la presenza in Vaticano del Papa emerito ha avuto l’effetto di “frenare” la “rivoluzione” di papa Bergoglio. Era questo lo scopo? Mons. Bux scrive: «Se si consulta il sito Katholiske, sulla rinuncia, si trova scritto che Benedetto XVI lo ha fatto per evitare uno scisma, giocando d’anticipo sui modernisti che volevano spingerlo alla rinuncia». Una situazione drammatica della Chiesa che Bux, citando proprio Ratzinger, sintetizza così: «Il neopaganesimo o il secolarismo che dir si voglia, è entrato nella Chiesa a causa dell’inseguimento del mondo».
Secondo Bux gli ultimi anni sono stati il culmine dell’invasione del pensiero modernista-progressista dentro la Chiesa: «L’Apostolo afferma: “la realtà invece è il Cristo” (Col 2,17). Ciò nonostante, nella Chiesa, la realtà è incalzata dall’utopia da oltre sessant’anni (...) fino al punto che papa Francesco non spiegava perché Dio si è fatto uomo, ma cercava altrove la fonte della “fratellanza”, prediligendo i corpi individuali e sociali, non parlando mai della salvezza delle anime e collegando la speranza all’utopia e ai sogni, in contrasto con la speranza cristiana “la virtù teologale per la quale desideriamo il regno dei cieli e la vita eterna come nostra felicità, riponendo la nostra fiducia nelle promesse di Cristo e appoggiandoci non sulle nostre forze, ma sull’aiuto della grazia dello Spirito Santo” (CCC 1817). Gli uomini di Chiesa si sono fatti profeti della società post-secolare europea ormai esausta, guardandosi bene dall’indicare in Gesù la via di salvezza e “quindi consolazione, in merito ai significati ultimi dell’esistenza: il senso della vita e della morte, nonché le ragioni della sofferenza nella vita terrena”. Il grande assente dalla predicazione è Gesù».
Ecco il suo auspicio: «Se la Chiesa d’oggi si trova in questa “vistosa confusione”, potrebbe il nuovo papa far finta di nulla? Una rigenerazione accompagnerà certamente la fine del disordine, di cui soffre la Chiesa». Leone XIV ha iniziato.