Quello c’ha una faccia da interista». «Zitti zitti, il piglio è da avvocato». «Quel lì è uno che ha fatto le ore piccole...». Bastava poco (di certo bastava poco a quattro fuoriclasse come Cochi e Renato, Enzo Jannacci e Beppe Viola): bastava un tavolino, una sedia da Gattullo, il mitico bar milanese (che ancora esiste), e poi l’occhio clinico curioso e indagatore al tempo stesso e l’atmosfera per l’appunto “da bar” che ormai non c’è più neanche a cercarla in provincia. Spazzata via da una modernità che al bianchino preferisce il cocktail fighetto (però solo nella giusta location, con gli ingredienti trendy) e che il caffè manco lo beve più. Al massimo si concede un matcha latte, meglio da Starbucks però, col take-away che fa tanto newyorkese anche se poi, la sera, si torna a casa in Brianza. “L’ufficio facce”, quello orgogliosamente, tenacemente, indissolubilmente legato al bar degli anni Settanta, Ottanta, pure Novanta, oggi non potrebbe esistere proprio. E chi ci va più, al bar?
A quello tradizionale, col biliardo bucherellato sul tappetino verde causa cicche spente in momenti poco opportuni, con l’immancabile partitina a briscola nell’angolo in fondo a destra, un po’ Necchi di Amici Miei, un po’ Stefano Benni di Bar Sport (già Bar Sport Duemila iniziava a perdere di fascino), il catalizzatore della vita di ogni borgo, la mattina pieno per le colazioni delle sciure che poi andavano al mercato, il pomeriggio zeppo di ragazzini che bigiavano la scuola, la sera intasato dalle compagnie maschili per il bicchierino della staffa. Siamo rimasti in pochi, fieri frequentatori di questi ultimi scampoli di socialità vera, stretta tra uno sfottò gratuito e il conto sempre aperto per il paesano che non poteva permettersi un’aranciata ma che ne beveva tre senza sentirsi mai a scrocco (perché nessuno glielo faceva pesare).
In dodici anni, a Firenze, ha chiuso un bar su quattro: duecento esercizi, secondo la Fipe locale, che è la federazione che li riunisce, han tirato giù la serranda e arrivederci. Le nuove aperture sono appena 150 sicché è facile far di conto: il saldo è negativo. Le classiche caffetterie non sono più classiche per niente.
È lo stesso, tra l’altro, nel resto d’Italia: in dieci anni, da Palermo a Trieste, sempre stando ai numeri della Fipe però a quella nazionale, i banconi che sono andati in pensione sono stati 20mila. Al loro posto sono nate attività sempre più specializzate: yogurterie, gratinerie, croissanterie, cappuccinerie, wafflerie, sciocchezzerie. Colpa del Covid, sì certo, che su alcune attività ha pesato più che altrove, ma raccontiamocela tutta: la china era in discesa anche prima della pandemia. Il discorso, qui, è molto più articolato e non ha (solo) a che vedere con le bollette sempre più salate, con la burocrazia che in questo Paese riesce a smontare gli entusiasmi a qualsiasi imprenditore motivato, coi costi di gestione, con l’inflazione o con la difficoltà a trovare personale qualificato. È che sono cambiate le nostre abitudini, siamo cambiati noi. Ci siamo dimenticati della Luisona (a proposito di Benni) e l’abbiamo sostituita con paste sempre più gourmet, più raffinate, al punto che non andiamo più al bar “sotto casa” per un cornetto al volo prima di entrare in ufficio, andiamo direttamente in pasticceria. La finale di campionato non ce la sciroppiamo più al baretto con gli amici, abbiamo il maxischermo da 60 pollici in casa, ci siamo spostati tutti lì. Ai ragazzi il caffè piace sempre meno, il vino piace ni (il 66% della generazione z, cioè di chi ha più di 18 anni ma meno di 24, preferisce limitare il consumo di bevande alcoliche: e se proprio si lascia andare, lo fa nei locali del centro), i giochi tipo freccette non piacciono proprio più (con tutta la concorrenza digitale che c’è). Sopravvive leggermente meglio chi mantiene la licenza per i tabacchi (ma anche qui, i giovani fumano sempre meno), le marche da bollo sono diventate una scocciatura, che sia in città, in montagna, o al mare è lo stesso andazzo. E per noi nostalgici del flipper (che siamo venuti su a suon di gettoni) è anche un mezzo colpo al cuore. Ma va così. Ci consoliamo come quelle Certi notti là: illudendoci che «ci vediamo da Mario, prima o poi».