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Insulta il capufficio, finisce in disgrazia: la sentenza della Cassazione

di Alessandro Dell'Orto venerdì 22 agosto 2025

3' di lettura

Se pensate che l’ultima sentenza della Corte di Cassazione - la quale ha stabilito che sia legittimo licenziare un dipendente che insulta il proprio capo - sia la fine di tutto, vi sbagliate. È invece un inquietante inizio. Un precedente che ci porterà chissà dove e che apre scenari oscuri per tutti noi che inevitabilmente - e nessuno neghi mentendo- almeno una volta nella vita abbiamo mandato a quel paese un superiore sussurrando con nervosismo o, nei casi più concitati, urlando con soddisfazione un liberatorio “vaffaaaaa”.

Già, uno sballo, un misto di adrenalina, rancore, frustrazione e orgoglio che aveva convinto perfino - ricordate? - il mitico Fantozzi (in “Fantozzi contro tutti”, 1980) a un timido tentativo di ribellione: tornato dalle ferie e di pessimo umore per la prospettiva di un altro anno di lavoro, il ragioniere più sfigato della storia aveva manifestato il desiderio di scrivere in cielo, con un dito, “Il Mega presidente è uno stronzo!”. E magicamente, ben visibile dalle finestre, tra le nuvole era apparsa la frase sognata. Ma se in quel caso Fantozzi, scoperto da una perizia calligrafica, se l’era cavata accettando, come punizione, di trasformare la scritta in “Fantozzi è uno stronzo”, a noi potrebbe capitare addirittura di peggio: essere cacciati.

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Sì, perché la Suprema corte ha appena stabilito che è legittimo il licenziamento di un dipendente che insulta il proprio capo davanti ad un collega: lo spunto è stata la vicenda di una donna di Acireale che ha dato del “leccaculo” a suo superiore e che, per questo motivo, è stata licenziata per giusta causa. I fatti risalgono al 2018 e sono accaduti nella sezione di Acireale dell’Aias (Associazione italiana assistenza spastici): di fronte alla richiesta del capo di svolgere un compito poco gradito, la dipendente si era prima rifiutata categoricamente e poi, in preda a un misto di rabbia e nervosismo, lo aveva insultato con un classicone, dandogli del “leccaculo”. Informato del litigio, il presidente della onlus pochi giorni dopo aveva fatto recapitare alla donna la lettera di licenziamento “per giusta causa”.

Provvedimento che lei aveva immediatamente impugnato. In prima istanza il giudice del lavoro, con ordinanza del 28 febbraio 2020, aveva accolto il ricorso della dipendente, ritenendo «il licenziamento illegittimo in quanto sproporzionato, dovendosi ricondurre il fatto contestato tra quelli punibili con una sanzione conservativa», e l’Aias era stata condannata al reintegro della donna e al pagamento di 12 mensilità, decisione poi confermata dal Tribunale di Catania il 15 settembre 2021.

Tutto finito? Macché. L’Aias era ricorsa in appello e la sentenza era stata riformata integralmente: «Il fatto contestato ed accertato integra la giusta causa di licenziamento», ai sensi dell’articolo 32 del contratto collettivo nazionale Aias, sia per «litigi di particolare gravità, ingiurie, risse sul luogo di lavoro», sia per «grave insubordinazione», avevano stabilito i giudici di secondo grado.

La Cassazione, ora, ha confermato tutto dando ragione alla Corte di Appello di Catania che «ha valutato la gravità intrinseca dell’epiteto rivolto a un superiore gerarchico, non come mero “alterco o diverbio”, ma come insubordinazione qualificata dall’ingiuria e dal rifiuto di adempiere a una direttiva. Specie considerato il contesto in cui è stato pronunciato, ossia in presenza di un’altra dipendente, che ne accentua la gravità e la platealità, e la sussistenza di un atteggiamento di sfida e disprezzo verso l’autorità».

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Le spiegazioni della dipendente licenziata, insomma, non sono servite a nulla. La donna aveva precisato che quell’epiteto volgare con il quale si era rivolta al suo capo fosse frutto di un «periodo di insoddisfazione lavorativa» e di difficili condizioni psicologiche, ma la Suprema Corte ha stabilito che «non possono in alcun modo giustificare la sua condotta» e che «il giudice di secondo grado ha, quindi, ritenuto che tale condotta, per la sua natura oggettivamente grave, fosse idonea a ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario, a prescindere dalla longevità del rapporto o da asserite condizioni personali della lavoratrice». Il risultato, dunque, è che la povera dipendente si ritrova a casa per essersi lasciata sfuggire un «leccaculo», ma soprattutto che, ora, gli uffici di tutta Italia rischiano di svuotarsi...

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