Mi ricordo ancora quel pomeriggio denso di silenzio e appunti, chino sui testi per l’esame di Antropologia Culturale. Tra la pila disordinata di quei testi, uno in particolare lasciò il segno: “La fine del mondo” di Ernesto de Martino. Anche se già il titolo sollevava qualche inquietudine, fu l’episodio in cui fu coinvolto un vecchio pastore calabrese – dapprima spaesato e perso e infine ripresosi grazie alla vista del campanile di Marcellinara – a imprimersi con la forza di un’immagine simbolica. Il campanile, sembra ipotizzare Ernesto de Martino, non è solo un punto di riferimento geografico. È un’ancora di realtà, un segno tangibile che riattiva la memoria, l’identità, l’essere. Quel pastore, in balia dello smarrimento percettivo, torna a esistere nel momento in cui riconosce il profilo familiare della propria terra. Ma ciò che più mi fece riflettere fu l’inquietudine contraria: cosa accade a chi sceglie di non guardare più il campanile?
Per molti, i punti di riferimento tradizionali – religiosi, culturali – sono i loro campanili. Ma siamo davvero certi che continuare a fissarli sia l’unica via per non smarrirsi? O forse è proprio nell’allontanarsi che si apre la possibilità di comprendere più a fondo chi siamo, e dare così senso alla nostra vita? Quel giorno, tra righe accademiche e margini sottolineati, compresi che la cultura non è solo trasmissione: è scelta. E scegliere, talvolta, significa sfidare l’autorità del consueto. Significa avere il coraggio di mettere in discussione il già noto. Coraggio di esplorare, anche quando ciò comporta l’abbandono dell’ombra rassicurante dei nostri campanili interiori. La verità non si rivela a chi resta immobile. Occorre il passo incerto, la fatica del dubbio, lo slancio di chi sa che ogni ricerca è un atto di libertà. Anche quando fa paura. Anche quando, nel silenzio di un luogo deserto, ci accorgiamo che il campanile... è scomparso. Ed è proprio in quel vuoto che qualcosa può accadere.
Con Trump pure i jeans diventano di destra
Una bambolina bionda sexy con gli occhi chiari si infila un paio di jeans da ragazzo. Nessuno spazio lasciato alle curve...Prendiamo, ad esempio, la fede: non come adesione cieca, ma come conoscenza e ricerca. Nel celebre discorso di Paolo all’Areopago si legge che Dio “non è lontano da ciascuno di noi”, e che gli uomini sono chiamati a cercarlo, “e si sforzino di trovarlo anche a tentoni, per poterlo incontrare”, benché non sia “lontano da ciascuno di noi”. È una descrizione potente: non di una verità imposta dall’alto, ma di una che si cerca “a tentoni”, nel buio dell’incertezza. Non è un cammino lineare, ma è reale. E chi lo percorre non è mai davvero solo. Poco oltre, si legge che “alcuni lo seguirono e credettero.” Solo “alcuni”. Non fu un consenso di massa, ma la risposta di chi ebbe il coraggio di aprirsi, di mettere in discussione i propri dèi, la propria storia, la propria filosofia. Di chi accettò la sfida del dubbio.
Dimmi il tuo segno e ti dirò la tua serie tv
Dimmi di che segno sei e ti diró che programma guardare. Ormai non si è più padroni di se stessi ma...Chi resta fermo al campanile vede solo ciò che ha già conosciuto. Chi si avventura oltre, forse troverà qualcosa di nuovo. O forse no. Ma almeno avrà cercato. E in questo c’è già una verità. Una verità che, come suggerisce Paolo, non è lontana, ma si lascia trovare da chi desidera cercarla. Anche inciampando. Anche smarrendosi. La trascendenza non è separata dall’esperienza umana, e ogni persona può entrare in contatto con Dio, se lo cerca con sincerità.