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Santa Maria Capua Vetere, accusato di violenze e archiviato. Ma il poliziotto si è suicidato

di Simone Di Meomartedì 9 dicembre 2025
Santa Maria Capua Vetere, accusato di violenze e archiviato. Ma il poliziotto si è suicidato

3' di lettura

La storia più cupa dell’inchiesta sui pestaggi di Santa Maria Capua Vetere non si consuma tra le mura del carcere, ma nel parcheggio assolato di Secondigliano. È lì che Benito Pacca, sovrintendente della penitenziaria, ha messo fine alla propria vita, con un colpo solo, il 25 giugno scorso, a pochi passi dalla struttura in cui aveva lavorato per decenni. Sessantanove anni quasi, pensione alle porte, un’indagine che lo teneva sveglio da mesi. Temeva che la sua carriera si sarebbe chiusa con un marchio di infamia. Lo diceva ai colleghi: «Ne voglio uscire presto». Ha deciso di farlo nel modo più drammatico. Il suo nome compare oggi tra i diciotto agenti archiviati dal gip. Per lui, come per gli altri, la Procura non ha trovato elementi per chiederne il rinvio a giudizio. Ma la salvezza è arrivata tardi, troppo tardi.

Quando il fascicolo si è chiuso, Pacca non c’era più. Resta un’ombra, il sospetto che il peso dell’inchiesta abbia contribuito a schiacciarlo. Nessuno l’ha detto apertamente, ma dentro il corpo di polizia lo pensano in molti. Era un uomo provato, irrigidito dall’idea di finire nel vortice mediatico. Si è trovato nel punto esatto in cui si spezza la linea tra responsabilità professionale e disfatta personale. Eppure il suo ruolo nella vicenda non era quello di un protagonista. Era uno dei cinquanta agenti del secondo filone d’indagine, arrivati da istituti esterni, irriconoscibili nei video perché coperti da caschi e mascherine. Un reparto di rinforzo, mai identificato con chiarezza nelle ore più violente del 6 aprile 2020. Trentadue di loro affronteranno l’udienza preliminare il 29 gennaio. Diciotto, compreso Pacca, sono fuori. Ma lui resta un punto fermo della tragedia: il solo agente morto (per propria mano) nella storia di quell’orrore, la vittima collaterale che nessuno sa come raccontare. Intorno a lui, la macchina della giustizia gira irregolare.

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Il maxi-processo principale, nato dai video interni che hanno immortalato manganelli, corpi trascinati e il caos del reparto Nilo, va avanti tra rinvii e polemiche. Il cambio al vertice del collegio giudicante ha scatenato la rivolta degli avvocati, che parlano di «ombre da chiarire» sul trasferimento del precedente presidente, Roberto Donatiello. Vogliono un’ispezione ministeriale. Temono che un processo con 105 imputati, già estenuante di suo, diventi di fatto ingestibile. In aula, intanto, si incrociano le versioni più diverse. La frase «li abbattiamo come vitelli», che per mesi è stata presentata come prova della premeditazione, non è stata scritta da chi partecipò ai pestaggi ma da un agente di San Vittore, estraneo ai fatti. Una battuta (disgustosa) ma niente di più.

Le dichiarazioni dei detenuti rivelano zone grigie: pestaggi confermati, barbe tagliate, sangue sul pavimento. Ma anche un ispettore, Salvatore Mezzarano, indicato come colui che salvò un recluso dalla violenza dei colleghi: «Scappa, qui ti ammazzano», disse al carcerato tirandolo fuori da una mischia furiosa. Gli passò un fazzoletto per tamponarsi il sangue che gli scorreva dal naso, e lo mise al sicuro. Frammenti di umanità che si perdono in un mare di violenza raccontata, vissuta e talvolta amplificata anche per vendetta.

«La notizia dell’archiviazione di Pacca, da parte dell’autorità giudiziaria, avvenuta ad ottobre ma che abbiamo appreso solo oggi, conferma la necessità di affrontare la vicenda con il massimo rispetto ed equilibrio, senza preconcetti e pregiudizi», hanno dichiarato Ciro Auricchio e Giuseppe Moretti, rispettivamente segretario regionale campano e presidente nazionale del sindacato di polizia penitenziaria Uspp. «Si tratta della vita e della dignità professionale dei poliziotti che operano ogni giorno in contesti estremamente complessi, come quello degli istituti penitenziari». Temono che «gli operatori coinvolti» vengano «messi alla gogna da processi mediatici sommari», che possono «arrecare danni alle persone e alle loro famiglie». E Pacca è il volto più drammatico di un dibattimento che continua a inciampare, a riscriversi, a scivolare lungo un pendio scosceso. E mentre il Paese aspetta di sapere cosa accadde davvero quel 6 aprile, l’unica certezza è che un uomo, travolto dal frastuono di una mattanza che non ha compiuto, ha scelto il silenzio definitivo. Il processo continua. Lui ha scelto altro.