Kamikaze alla caserma, fermati 2 complici
Maroni: "L'attenzione è massima"
“Per le modalità dell'azione l'attentatore che ha colpito la caserma di Milano si può considerare compatibile con la figura del kamikaze”. Lo ha detto il ministro dell'Interno, Roberto Maroni, al termine del comitato nazionale dell'ordine e della sicurezza che ha fatto il punto sull'attentato di lunedì mattina alla caserma Santa Barbara di Milano. Maroni ha sottolineato che ''gli effetti dell'azione non sono stati devastanti soltanto per un difetto di confezionamento dell'ordigno”. La bomba artigianale usata contro la caserma di Milano conteneva 5 chilogrammi di esplosivo, di cui però solo un decimo del materiale è esploso. ''Non siamo ancora in grado di verificare se l'attentato di ieri alla caserma di Milano è stato messo a punto da un'organizzazione 'fai da tè oppure se c'era un collegamento con organizzazioni strutturate – ha detto Maroni – sarebbe più pericoloso se non ci fosse un collegamento con organizzazioni, perchè si tratterebbe di persone che compiono azioni autonomamente ispirandosi ad un progetto di tipo jihadista e potrebbero essere tante, e difficilmente controllabili le situazioni del genere” “L'attenzione è massima – ha concluso poi il ministro – e saranno promosse azioni per monitorare e prevenire attentati del genere. Il comitato, ha aggiunto, ha parlato di ''moderata preoccupazione”. Manganelli: attentato frutto della mancata integrazione - L'attentato di Milano è ''frutto non solo di fanatismo ma è anche il risultato di una mancata Integrazione”. Lo ha detto il capo della Polizia, Antonio Manganelli, nel corso del suo intervento alla prima Conferenza dei prefetti in corso a Roma presso la Scuola superiore dell'ammistrazione dell'Interno sull'attentato alla caserma Santa Barbara avvenuto lunedì mattina a Milano. Manganelli, che ha affrontato il tema dell'immigrazione clandestina, ha detto che ''il problema va affrontato con coraggio e non con mere misure repressive”. Per il capo della Polizia l'approccio deve essere ''a cavallo tra rigore e solidarietà e accoglienza'', e occorre inoltre dare ''migliore accoglienza ai regolari'' perché questo può aiutare a ''disinnescare” le insidie legate all'immigrazione clandestina. Il capo della Polizia ha concluso il suo intervento riflettendo sulla necessità di combattere l'immigrazione clandestina ''in modo serenamente rigoroso''. I temi legati a ''sicurezza e immigrazione'' sono stati affrontati anche dal prefetto Mario Morcone, capo Dipartimento Immigrazione del ministero dell'Interno. Per Morcone il ''tema dell'integrazione è la migliore risposta alle istanze di sicurezza che vengono dalla società”. Per affrontare la questione dell'integrazione, ha detto il prefetto, l'Italia dispone ora di ''nuovi strumenti'', anche ''soddisfacenti''. Quanto al tema dei richiedenti asilo e dei rifugiati, per Morcone l'Italia ha ''standard molto avanzati''. In generale, rispetto alle tematiche legate al fenomeno della globalizzazione e alle sue ricadute in termini di immigrazione, Morcone ha invitato a ''guardare a tutto questo con sguardo aperto e consapevolezza che stiamo costruendo il nostro futuro''. L'attentato - Sono le 7.45 di lunedì quando unabomba esplode davanti alla caserma del'esercito Santa Barbara di viaPerrucchetti a Milano, sede del Primo Reggimento Trasmissioni e del Reggimentoartiglieria a cavallo dell'esercito. A far ‘saltare' il rudimentaleordigno è un libico di 35 anni: Mohammed Game. Un“lupo solitario”, dice l'intelligence, ossia non legato a reti o celluleterroristiche. Game, dopo l'esplosione, è stato trasportato all'ospedale Fatebenefratelli: ha perso una mano e la vista. Ferito lievemente Guido La Veneziana,un caporale di 20 anni del primo reggimento Trasmissioni, di servizio in quelmomento in caserma; il militare si era avvicinato all'attentatore mentre si aggirava davanti allacaserma con fare sospetto. Game aveva con sè una cassetta per gli attrezzi:all'interno l'esplosivo, 2,5 kg, che fortunatamente non sono esplosi interamente. La deflagrazione avrebbe in questo caso distrutto l'intera facciata. Nella notte sono stati fermati a Milano due suoi complici: un egiziano e un libico. Il libicoavrebbe aiutato il connazionale Game a reperire il materiale esplosivo usatoper confezionare l'ordigno; l'egiziano invece, che è un vicino di casadell'attentatore, lo avrebbe accompagnato davanti alla caserma. I due presunti complici sono stati fermati dagli uomini della squadramobile coordinati dal pm di Milano Maurizio Romanelli, titolaredell'inchiesta sull'attentato, che oggi dovrebbe inoltrare al Gip larichiesta di convalida dell'arresto di Game. I fermi sono avvenuti dopoche la polizia ha ascoltato parenti ed amici del trentaquattrennelibico accusato di detenzione, porto abusivo e fabbricazione diesplosivi e che presto verrà indagato anche per strage. Intanto questa mattina nell'abitazione dei due fermati sono stati trovati 40 kg di espolsivo: si tratta di nitrato di ammonio, acquistato da Game e dal suo amico libico una settimana fa. Lo ha detto ilprocuratore aggiunto di Milano, Armando Spataro, in una conferenzastampa. I due presunti complici sono in attesa della convalida del gip."Si tratta di fermi e non di arresti in flagranza di reato come quellodi ieri - ha sottolineato Spataro - si tratta di fermi che dovrannoessere necessariamente sottoposti alla valutazione di un giudice". Nessun legame con la jihad - Per ora non risultano legami tra l'attentatore di Milano, i duepresunti complici fermati e la Jihad islamica internazionale. E' quantodichiarato dagli inquirenti che stanno indagando sull'attentatocommesso da Mohamed Game, che lunedi' ha fatto esplodere un ordignodavanti alla caserma "Santa Barbara" di Milano. "Le nostre indaginiproseguono: se fra qualche mese porteranno ad accertare questo tipo dilegami, adesso non possiamo saperlo." - ha riferito uno degliinvestigatori. di Andrea Scaglia - Guardi la foto e fa impressione: aspirante kamikaze e famiglia in un interno. Solo che stavolta è Milano, mica Gaza. E subito c'è chi cerca di minimizzare, «un disperato» o «un cane sciolto» o qualcosa del genere»: ma si sa poco o nulla, c'è parecchio da indagare. In ogni caso, il brivido resta. Un chilometro, mille passi. Tanto dista il malmesso caseggiato popolare di via Civitali 30 dalla caserma Santa Barbara, quella di piazza Perrucchetti, a Milano. Mohamed dev'essere uscito che stava albeggiando, oppure era ancora notte, comunque lasciandosi sulla destra lo stadio di San Siro, uno dei simboli della Milano più luccicante, saranno più o meno cinquecento metri. È andato nell'altra direzione, ha oltrepassato camminando il supermarket asiatico, poi la macelleria islamica, quindi l'agenzia viaggi con la scritta in arabo, il negozio di kebab, il parrucchiere “Speransa”, anche questo con l'insegna in lingua araba. Portava in una mano un involucro, una cassetta per attrezzi, forse l'aveva prelevata dalla macchina, la monovolume Citröen verde parcheggiata lì davanti, un rosario appeso allo specchietto. Era piena d'esplosivo, la borsa. È arrivato all'entrata della caserma poco dopo le sette e mezza. Ha cercato di entrare senza dare nell'occhio. Poi l'alt dei soldati di guardia, lui che aziona fa esplodere l'ordigno. Nessun ferito tra i militari. Mohamed, invece, ha perso una mano e la vista. È piantonato in ospedale. Non è riuscito a far esplodere tutto l'esplosivo, altrimenti le conseguenze sarebbero state molto diverse. Studi da ingegnere Una storia terribilmente semplice, quella di Mohamed Game. Storia di immigrazione e disperazione e fanatismo religioso, che messi insieme fanno da detonatore. Trentacinque anni, libico di nascita. È in Italia dal 2003 - «con permesso di soggiorno», precisano dalla questura. O meglio, dal 2003 si sa che è qui, aveva aperto una ditta individuale, praticamente muratore ed elettricista, lui che in Libia aveva studiato da ingegnere elettronico, qualcuno dice addirittura laureato. Ma quella casa popolare, quei due locali senza bagno nel casermone di via Civitali dove gli extracomunitari sono maggioranza, l'aveva occupata l'anno prima, nel maggio del 2002. In realtà era stata la sua compagna a occupare, un'italiana, Giovanna, di anni ne ha 39. Ha forzato la porta-finestra del piccolo balcone, piano rialzato scala D. All'epoca - lei che aveva già avuto due bambini da una precedente relazione, adesso hanno nove e dieci anni - all'epoca Giovanna era già incinta del primo figlio di Mohamed. Quand'è nato l'hanno chiamato Islam. Tre anni dopo, un altro bimbo di nome Omar. In sei, tutti stipati in quei due locali. Da abusivi. All'Aler, l'azienda milanese di edilizia popolare, la pratica era nota, erano morosi di 11mila euro, «ma quando ci sono di mezzo dei bambini si cerca di rimandare lo sgombero». Il lavoro, la ditta: un disastro. Un sacco di debiti, da un paio d'anni Mohamed l'aveva di fatto chiusa, quell'attività, inseguito dai creditori. Nel 2007 era anche incappato in una denuncia per ricettazione: il suo amico Israfil ne parla con aria contrita, davanti al cancello di casa, è stato con lui fino a domenica a mezzogiorno. Intorno a noi, ragazze e signore con il tradizionale velo islamico chiedono che cos'è successo, entrano ed escono dalla casa piantonata dalla Polizia, evitano telecamere e taccuini. Israfil prosegue nel racconto: adesso Mohamed s'arrangiava con lavoretti saltuari, «ha anche un fratello che vive qui vicino, zona Baggio, ma lui non può aiutarlo». Giovanna arrotondava facendo le pulizie, si era anche iscritta a un sito Internet per offrirsi come colf. «Ultimamente si erano aggravati i problemi di salute di Mohamed - dice ancora Israfil -, soffriva di cuore e anche alla gola. Era convinto che la morte fosse vicina». E la religione? «Era da cinque o sei mesi che si era riavvicinato ad Allah. Era anche tornato a frequentare la moschea di viale Jenner». E c'è chi sostiene che quello non sia un ambiente così tranquillo... «Non lo so, non lo so. Ma Mohamed era molto, molto arrabbiato per i soldati che l'Italia ha inviato in Afghanistan». Arriva una funzionaria di Polizia e se lo porta via. E poi c'è la storia dell'intervista. Due mesi fa, il 6 di agosto, il quotidiano Cronaca Qui aveva pubblicato proprio un colloquio con Mohamed e Giovanna. Titolo: “Famiglia abusiva vive senza bagno”. Si parlava di quanto fosse difficile la loro vita, Giovanna spiegava che «per lavarci andiamo da parenti e amici», e fra tutt'e due riescono a tirar su poco meno di mille euro al mese. E poi lui: «Non abbiamo alternative - così diceva - perché non ci assegnano una casa popolare più dignitosa, e un affitto a prezzi di mercato non possiamo permettercelo. Non abbiamo diritti perché siamo abusivi. Non possiamo nemmeno partecipare ai bandi». D'altronde, con i parenti - per lo meno con quelli di lei - i contatti sono ormai rari e difficili, la zia di Giovanna lo conferma, «io non c'ho più niente a che fare, con quelli». Ecco, questo è il quadro. «Famiglia mista» Davanti al palazzone di via Civitali gli inquirenti continuano i rilievi, interrogano i vicini. Escono tre ragazzini, si fermano, ci chiedono, parlano tranquilli: «Ah, Mohamed, quello grosso? I suoi figli erano sempre in cortile a giocare, anche ieri. Però si vedeva che avevano timore, il padre è uno che li educa, uno severo». Altri vicini parlano di quella famiglia mista, «una famiglia mista», così dice un'altra donna con il velo a coprire i capelli. «Quest'estate Mohamed se ne stava sempre lì a parlare con i suoi amici, così serio. Parlavano e parlavano fra di loro». Sul muro proprio dietro di lei c'è un volantino, “No agli sgomberi”. Passa un'altra signora, il pattuglione di cronisti le si fa intorno, tutti a far domande. Ma lei fa segno che no, l'italiano non lo parla.