Omicidio Calabresi
Sofri: "solo" una vendetta
Il passato in questi giorni ritorna e continua a far discutere. Dopo le polemiche sul fascismo, è la volta degli “anni di piombo” e dell'omicidio Calabresi in particolare. La scintilla che ha fatto scatenare tutto arriva dall'articolo apparso quest'oggi sul Foglio, a firma di Adriano Sofri, condannato in via definitiva perché ritenuto il mandante di quella pagina di terrorismo. Nella sua rubrica quotidiana “Piccola posta”, l'ex terrorista commenta un articolo di Mario Calabresi, il figlio del commissario, corrispondente dagli Stati Uniti di Repubblica. Calabresi racconta di un incontro alle Nazioni Unite alle quali hanno partecipato le vittime del terrorismo, anche quelli italiane. Così Sofri torna sui “cosiddetti anni di piombo” nella veste anche di “mandante di quell'omicidio” e scrive: “Non ho mai ordito né ordinato alcun omicidio, e questa verità non si attenua di un millimetro col passare del tempo, e col mio passare il tempo di tanti anni in galera e da prigioniero”. Sofri, leader di Lotta continua, si toglie così da qualsiasi responsabilità, ma nello stesso tempo mette nero su bianco una versione dura da digerire: il commissario Calabresi fu ucciso da coloro che, non credendo più nella giustizia, “confidando sul sentimento proprio”, vollero “vendicare le vittima di una violenza torbida e cieca”. Intendendo per violenza quella del 12 dicembre 1969, il giorno della strage di Piazza Fonatana a Milano sulla quale indagava Calabresi. Una strage imputabile non al terrorismo di sinistra, per Sofri. Al contrario di quanto raccontano le indagini, che presero di mira gli ambienti anarchici. Provocando in questo modo, nella logica di Sofri, il risentimento di chi poi premette il grilletto contro il commissario, accusato di aver gettato dalla finestra della questura milanese l'indagato (anarchico) Pinelli. Un suicidio trasformato ad arte in omicidio. Sempre Sofri ammette che le parole di Lc dopo l'affare Pinelli “furono parole accanite d violenza, benché mai di terrorismo perché un confine c'era”. Solo che si dimentica di illustrarlo. “I suoi autori erano mossi dallo sdegno e dalla commozione per le vittime”, prosegue. Che chiude il lungo articolo con un “non sono mai stato terrorista”. A rispondergli è Maurizio Gasparri, capogruppo al Senato per il Pdl: quello di Sofri è un “linguaggio pieno di rancore e ambiguo giustificazionismo per i fatti per i quali è stato condannato in via definitiva”. “I toni, le considerazioni, le rinnovate offese nei confronti della memoria del commissario Calabresi contenuti nello scritto di Adriano Sofri”, continua Gasparri, “sono inquietanti. Si finisce quasi per giustificare, ancora oggi, gli appelli deliranti che prepararono l'omicidio del commissario con le firme di tanti giornalisti ed intellettuali che oggi se ne vergognano”. Per il capogruppo del Pdl, a conti fatti, “nella mente di qualcuno continuano gli anni di piombo”. Commenta la vicenda anche Luigi Li Gotti, legale della famiglia Calabresi: “Non voglio riaprire il discorso sui contenuti della sentenza, che è definitiva oramai dal 1997, da ben undici anni”, premette Li Gotti, “ è vero che la formulazione giuridica del reato non contiene l'aggravante dell'appartenenza al terrorismo e dunque che, tecnicamente, si tratta ‘solo' di un omicidio volontario premeditato. Ma è altrettanto vero e significativo che la motivazione dà proprio a quell'omicidio una connotazione terroristica”. Li Gotti rileva poi, a proposito del caso Pinelli e di quanto scrive Sofri: “Oggi tendo a credere che Luigi Calabresi non fosse nella sua stanza” e che “è stato accertato giuridicamente e dunque escluso che il commissario in quel momento si trovasse lì: era a colloquio nella stanza del questore Allegra”.