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La piazza non porta più né voti né idee

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di Filippo Facci

Eleonora Crisafulli
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A che servono le manifestazioni, nell'anno di grazia 2010? Hanno tutta l'importanza che i media continuano a dargli? Ovvio che la domanda valga anche per l'assembramento di sabato prossimo organizzato da Berlusconi, anche se è vero che una manifestazione di centrodestra resta tutto sommato una rarità e un'eccezione culturale. Alcune risposte paiono lapalissiane: le manifestazioni servono a chi vi partecipa, a coagulare gli animi, a lanciare un messaggio, a finire sui giornali e in tv. E infatti il punto è questo. Ormai nessuna manifestazione è una vera manifestazione, nessun presidio è un presidio, e nessun convegno o presentazione di libro o tavolo di raccolta firme meritano il nome che hanno: sono tutte conferenze-stampa, tutti richiami esclusivamente votati a ottenere uno spazio mediatico che sia rappresentazione di una realtà che non coincide necessariamente con la realtà, o perlomeno non con una realtà rilevante. Sembra ovvio anche questo, certo, ma il fatto che giornali e tv e siti web s'industrino ogni volta attorno a delle manifestazioni che pure sono tutte uguali (eventuali imprevisti compresi) non toglie che in concreto, di nuovo, di spontaneo, anche ieri non è accaduto assolutamente nulla. Si sono divertiti? Hanno fatto bene. Ma se un tempo le manifestazioni avevano una funzione democratica insostituibile, oggi non sono più l'unico modo di far sentire la propria voce, non sono più una vera sfida al potere costituito, un pezzetto di storia: sono solo il periodico appuntamento di un ricorrente gruppo di persone (sempre quelle da quindic'anni, più qualche innesto generazionale) che ogni tanto si ritrova per far casino con striscioni, bandiere, tempismo, soprattutto senso della notizia. I balletti delle cifre, poi, dopo ogni corteo, sono grotteschi: i manifestanti ormai si pesano, non si contano. Così come grottesco è il tentativo di svilire le cifre dei cortei altrui. Anche perché il più scarso dei programmi televisivi che si occupi di politica, in una sola sera, ha maggior seguito della più clamorosa manifestazione inscenata negli ultimi anni: è da lustri che le minoranze rumorose non contano più, almeno non per strada; il numero di partecipanti a una manifestazione diviene perciò rilevante in termini di ordine pubblico, può essere interessante da un punto di vista sociale o sociologico, può essere un sensore dello spirito di un'epoca, può essere molte cose: ma un'opinione espressa in piazza, in termini strettamente democratici e numerici, oggi vale come una che resti racchiusa tra le mura domestiche. Non è che a scendere in piazza serva un coraggio particolare, anzi, spesso è il segno di un'omologazione. Le manifestazioni sono fatte solo per noi, noi giornalisti, fotografi, cineoperatori, rilevatori di una realtà che è costruita solo al fine di essere rilevata. Ma per capire l'aria che tira in un Paese, purtroppo, il più scalcagnato dei sondaggi resta assai più significante. Tutto per dire semplicemente che se una manifestazione è in grado di spostare consensi e quindi voti - com'è accaduto -  è perché noi giornalisti ci caschiamo ogni volta, sovraesponendo l'ordinario come se fosse straordinario, come se fossimo all'inizio del Novecento o al limite nei primi anni Settanta. È in virtù di questo banale meccanismo che uno come Antonio Di Pietro, per citare uno specialista, ogni venti minuti sente l'impellente necessità di manifestare: golpe, dittatura, il tar, la tremillesima inchiesta, ogni pretesto è buono per far sembrare una minoranza - rumorosa - qualcosa di diverso da una minoranza. Filippo Facci

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