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Ingroia attacca Silvio e dimentica Borsellino

Il pm amico di Travaglio, sceso in piazza per la costituzione: "Io criticato come Paolo". Che però voleva una riforma come questa... / FACCI

Giulio Bucchi
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Antonio Ingroia ha veramente rotto, anche questo è un parere tecnico. Ha rotto perché uno non può attaccare il governo e «infiammare Piazza del Popolo» (testuale da Repubblica di ieri) e poi spacciartelo come l'atto di un convegno a porte chiuse, non può definire «sobrio» il suo intervento infilato tra le militanze di partito e tra varia compagnia letteralmente cantante. Ingroia ha rotto soprattutto per il suo continuo parallelarsi a Paolo Borsellino, del quale secondo il suo compare di verbali e di vacanze, Marco Travaglio, sarebbe ovviamente «unico erede» assieme a Giovanni Falcone: e si può solo immaginare che cosa avrebbero provato i due di fronte a questo incessante marketing del defunto che ci hanno costruito attorno da quasi vent'anni, questo macabro carnevale di sfruttamento politico, editoriale, giudiziario e «culturale» dell'icona di uomini che ne avrebbe avuto soltanto orrore. Uomini che erano allergici a tutte le cialtronate del parolame antimafia, e le fiaccolate, i cortei luttuosi, gli alberi Falcone, le vie e le piazze e le scuole, la cazzata delle agende rosse, gli appelli, i video, la retorica, le urla, i pianti, la memoria scaraventata nel canaio. Ieri Ingroia si è fatto intervistare da Repubblica e ha detto che l'intolleranza che lo riguarda «è la stessa che anni fa attaccò Paolo Borsellino», naturalmente, solo che oggi c'è «uno spiegamento di uomini e mezzi molto più massiccio». Questo articolo ne fa evidentemente parte. Non solo questo: perché lui, Ingroia, cioè un magistrato, può tranquillamente andare a infiammare le piazze coi suoi interventi «sobri», ma a rispondergli occorre stare attenti, perché «non mi sembrano affatto sobri», ha detto, «gli attacchi che gettano fango su chi non la pensa allo stesso modo». Traduzione: «Darò mandato ai miei avvocati di valutare i presupposti per un'azione legale». Un'azione tecnica, s'intende. Cioè: lui fa il pm e può andare in piazza ad attaccare il governo, noi facciamo il giornalisti ma se attacchiamo ci querela. Voi limitatevi a immaginare un Paolo Borsellino che va in Piazza del Popolo ad attaccare un governo: ecco, Ingroia, querelaci questo. Oppure, ecco, Ingroia potrebbe offrirci un altro sobrio parere e attaccare in piazza direttamente Falcone e Borsellino, visto che le loro posizioni spesso coincidevano con le idee di questo governo in tema di giustizia e, s'intende, con le velleità del Piano di rinascita nazionale di Licio Gelli. Orsù, perché Ingroia non attacca anche il Falcone che su Repubblica del 3 ottobre 1991 si diceva favorevole alla separazione delle carriere? O il Falcone che sulla Stampa del 6 settembre 1991 criticava la politicizzazione della magistratura? O quello che il 20 gennaio 1990 si scagliava contro le correnti del Csm? Ingroia, tempo fa, disse che «l'attuale equilibrio politico e istituzionale è fondato sulle stragi del 1992»: un intervento sobrio anche questo. Un parere tecnico. La verità, a parte tutto, è che Ingroia ha tutte le ragioni di lagnarsi: in effetti questa complicata riforma della giustizia è rivolta anche contro i magistrati come lui. Quei magistrati, cioè, come Ingroia, che sono capaci di tenere in piedi istruttorie tutte sbagliate per poi scivolarne via senza pagare pegno, come quella sul delitto di Mauro Rostagno. Quei magistrati, come Ingroia, che biascicano continuamente di essere prossimi a indicibili verità (su trattative & politica & stragi eccetera)  dopo che per 18 anni una dozzina di pm, più una trentina di giudici di primo grado e d'appello e di Cassazione, non hanno ancora scoperto i veri esecutori e mandanti della strage di via D'Amelio: anzi, hanno incarcerato innocenti come ha rivelato il quasi-pentito Gaspare Spatuzza. Quei magistrati, come Ingroia, che si dicono indipendenti dalla stampa e poi passano le vacanze in Grecia con Marco Travaglio, il suo biografo di fiducia. Quei magistrati, come Ingroia, che si sono fatti ristrutturare il casolare di campagna da un uomo come il costruttore Michele Aiello, prima di scoprire - non lui: l'hanno scoperto altri - che questo Aiello era un prestanome di Bernardo Provenzano. Immaginarsi se fosse successo ad altri. Ma non è successo ad altri: è successo a lui, Antonio Ingroia, professione antimafia, elemento di spicco della più formidabile casta di intoccabili nominati per concorso. Ma questo nostro, naturalmente, è solo un parere tecnico.

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