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La balla di Bologna strage nera Trent'anni di bugie e omissioni

Il figlio dell'accusatore di Giusva, Stefano Sparti: "Mio padre non vide Fioravanti dopo la bomba, ha mentito" / MAGLIE

Costanza Signorelli
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Ho incontrato  Stefano Sparti, so quale prezzo alto stia pagando per aver provato a dire la verità su una delle vicende più terribili e oscure della storia dell'Italia contemporanea, provo dolore per lui e ne ammiro il coraggio. Questo non è un articolo sulla strage di Bologna, anniversario numero trentuno all'insegna della consueta rabbia militante contro neanche a dirlo il governo di Silvio Berlusconi, che fa bene a non presentarsi alla gogna annunziata di una pubblica piazza straorganizzata in associazione permanente, non i cittadini bolognesi, una piazza che non si capisce che cosa voglia ancora, se fosse vero per davvero che i colpevoli sono stati consegnati alla giustizia, processati con giusto processo, sentenziati con sentenza esemplare, e non fosse invece vero il contrario, che la verità è lontana non per difficoltà oggettiva ma per scelta trentennale della politica e della magistratura, se non fosse vero che le vittime così non sono in pace, tantomeno vendicate, e che la città di Bologna non può superare nella menzogna l'offesa ricevuta. Alla verità ufficiale della strage fascista nella gloriosa città comunista ogni anno credono meno persone, è insopportabile per una nazione civile. Questo è un articolo nemmeno tanto originale sullo sfruttamento bieco del pentitismo, su quella aberrazione della giustizia italiana che fa sì che a un mascalzone, pure bugiardo e distratto, si riconoscano credibilità e autorevolezza, oltre ai conseguenti super benefici, e invece a persone per bene, incensurate, in buona fede, si tiri addosso la croce dei bugiardi, dei non affidabili. Capita che il pentito in questione si chiami Massimo Sparti, che a lui sia stato affidato l'onere e l'onore della prova della teoria dominante sulla strage di Bologna, che ad avvalorare la sua credibilità sia stato messo agli atti e compatito un cancro di quelli che non perdonano e che ti fanno agire e parlare in coscienza anche se per la prima volta in una vita da malvivente conclamato, e invece sia morto ventuno anni dopo, e per altra ragione. Capita che documenti, esami clinici, siano spariti, che un coscienzioso dottore del carcere di Pisa, Ceraudo, che provò a denunciare l'imbroglio sia stato licenziato e solo tardivamente riabilitato, capita che la moglie di Sparti, la suocera, la donna di servizio, il figlio, tutti siano ritenuti bugiardi, mitomani, accecati dall'odio per il parente cattivo e manesco. Lui no, lui solo, Massimo Sparti, ha detto la verità inchiodando Francesca Mambro e Valerio Fioravanti, e il figlio Stefano, che nel 2007 si provò a dire le cose per come erano andate e da allora ogni anno coraggiosamente si espone a raccontare, è trattato come un mascalzone, peggio, un poveraccio. Stefano invece è un uomo degno. Questo è il suo racconto, e non sarebbe giusto lasciar passare l'anniversario trentuno senza dargli voce. "Mio padre nella storia del processo di Bologna ha sempre mentito. Ha sempre affermato di essere stato a Roma due giorni dopo la strage di Bologna per ricevere la richiesta di documenti falsi da parte di Fioravanti e Mambro che lo andarono a trovare vantandosi del "botto". In realtà era con noi, eravamo tutti a Cura di Vetralla, vicino Viterbo, nella nostra casa di campagna, pronti a partire per le vacanze, nei giorni precedenti, nei giorni successivi e nel giorno stesso della strage. Non potrei sbagliarmi, quando mio padre era con noi, vivevo nel terrore delle sue botte, e in quei giorni la televisione trasmetteva in continuazione le scene della stazione, l'orologio fermo, i soccorsi, i pianti, tutte cose indimenticabili". Era anche un padre e un marito violento. Delinquente comune, neofascista, legato alla Banda della Magliana, Massimo Sparti viene arrestato il 9 aprile del 1981. Due giorni dopo il suo arresto Sparti si pente. L'accusa basa tutto il suo impianto accusatorio sulla sua testimonanza. Al processo per la strage Sparti dichiara che il 4 agosto 1980, due giorni dopo la strage di Bologna, Valerio Fioravanti si sarebbe recato con lui dal falsario Fausto de Vecchi, dove avrebbe commentato i fatti di Bologna con la frase: "Hai visto che botto". Sparti, dopo avere accusato i due terroristi, viene scarcerato nel maggio del 1982 perché gli viene diagnosticato dai sanitari del penitenziario di Pisa un tumore al pancreas. Una menzogna, non solo sua. "Mio padre - racconta Stefano Sparti - si è sempre vantato, di fronte a noi, con altre persone, di avere le lastre di un'altra persona, con una malattia che in realtà lui non aveva, cioé il tumore. Un'altra cosa che raccontava è che aveva trovato una via per riuscire ad avere in carcere anfetamine così da simulare il dimagrimento da tumore". Nel 1981 i medici dell'ospedale penitenziario di Pisa certificano che Sparti è un malato terminale e gli viene concessa dai magistrati di Bologna la libertà provvisoria. Nonostante la diagnosi Sparti rifiuta qualsiasi tipo di terapia, in particolare quella chirurgica. Una volta dimesso e scarcerato, torna a Roma e il 6 marzo 1982 è ricoverato all'Ospedale San Camillo. Dopo circa un mese di accertamenti, Sparti viene operato per una laparotomia esplorativa: "Negativa l'esplorazione dello stomaco, duodeno, fegato e pancreas". Il tumore è sparito. Nel maggio del 1997, quando i carabinieri vanno al San Camillo per acquisire la cartella clinica di Sparti, su ordine del pubblico ministero di Bologna, scoprono che la cartella è andata distrutta per un incendio provvidenziale scoppiato il 20 settembre 1991 proprio nell'archivio del nosocomio. Stefano non ha visto suo padre per molti anni, inutili le testimonianze della madre, della nonna, della tata, che provarono a smentire Massimo Sparti e furono maltrattate da pubblica accusa e giudici. Anche Stefano, appena compiuti i diciotto anni, tentò di testimoniare, ma nessuno lo volle ascoltare, uno sconcio che dura ancora oggi. Nel 2002, quando il padre stava davvero per morire, Stefano è andato a trovarlo  in una clinica, perché, come dice lui, voleva "chiudere il cerchio": "Quando gli chiesi come mai si fosse infilato in quella situazione di menzogne orribili, mi disse "mi dispiace ma non potevo fare altrimenti". Tutto qui. di Maria Giovanna Maglie

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