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Paragone stronca il Senatùr Allo sbando come la Lega

Bossi non ha più il polso della situazione: solo con una nuova classe dirigente il partito potrà uscire dall'angolo

Lucia Esposito
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Nell'ordine. Un linguaggio fatto di iperboli appassite, consumate e ridicole nella loro aggressività (solo i politici, ministro Cancellieri in testa, possono davvero dare ancora peso a frasi spuntate). Poi, una questione settentrionale sfuggita di mano dopo anni persi a inseguire le farfalle del federalismo in salsa calderoliana. E infine le accuse pesanti (corruzione: si parla di un milione di euro girati al movimento) contro un dirigente di spicco della Lega Lombarda, Davide Boni, presidente del Consiglio regionale, amico di Renzo Bossi. Insomma una debacle, cui non basta replicare puntando l'indice contro la magistratura sporca e cattiva. La Lega bossiana sembra una bevuta di Coca cola sgasata, senza più bollicine, costretta a sbraitare perché non ha più né il fiato né le gambe per star dietro alla protesta di un Nord ancora affamato di risposte. Eppure una Lega che scalpita c'è, fuori da via Bellerio. Il Nord, dicevamo, non ha cambiato di un nulla la sua rabbia contro Roma, capitale di un sistema di potere che riesce sempre e solo a salvare se stesso.  Calcolo dei rischi A ragionar per assurdo, se Monti rischia perché trascura le istanze delle piccole imprese, degli artigiani, delle partite iva, non di meno rischia il Senatur, ormai vuoto sindacalista della sua Padania. Vuoto nel senso di consumato, stremato dalla malattia, incapace di liberarsi da quel giro di consiglieri e zuzzurelloni colpevoli di aver infilato la Lega nei riti più tradizionali della politica. L'ultimo replicante similBossi è Gobbo sindaco di Treviso nonché reggente della Liga Veneta: «Monti non è persona gradita in Veneto», s'è affrettato a sentenziare. Ma stiamo sulla politica. Su un tema fondamentale come quello delle banche il Carroccio è in fuorigioco per le note vicende di Credieuronord o per i recenti investimenti del tesoriere Belsito in Tanzania. Eppure proprio sul rapporto tra credito e tenuta industriale che la questione padana ha un senso. Ovviamente non riuscendo a fare politica sulle questioni serie, non resta che alzare il tiro su Monti o sull'inno di Mameli. Tutta roba già vista e rivista. Arriviamo così al punto. Problema di leadership La Lega si sta trascinando da un anno il tema del ricambio di leadership. Ci gira attorno, non vuole ammaccare il valore simbolico del Capo sebbene abbia puntato il mirino (con ragione) sul suo Cerchio. Del resto che Bossi non dia più una linea politica ma si limiti a gestire il modo maldestro la rendita di un tempo è evidente a tutti. La Lega deve cambiare la propria classe dirigente, deve affidare a una nuova leadership quel sogno o quel progetto ancora ben piantato nel Nord del Paese. Agli inizi la Lega fu straordinaria nel dare una forma e un nome a un disagio che nasceva dal mondo delle imprese e trovava eco nella società. Coniò un linguaggio che per quanto rudimentale aveva il suo effetto. Non inventò parole magiche, sia chiaro: la rivendicazione di un orgoglio locale c'era prima dei comizi di Bossi; mancava la voce e un carisma. Oggi – tanto per aggiungere una perla - siamo arrivati al punto che il figlio di Bossi chiede in Consiglio regionale di bloccare Facebook e Twitter perché distraggono i lavori. Nel giro di poche ore, la Lega di Bossi e dei bossiani è invecchiata di dieci anni. È diventata un partito come gli altri, costretta a smentire, a rettificare, a scusarsi. Se non a tappare la bocca a chi non si uniforma. Può uscire dall'angolo? Certo, riprendendo a fare politica e piantandola di masticare le solite provocazioni buone solo a riempire gli spazi vuoti delle agenzie. Da Maroni a Tosi, c'è una Lega che sta dando prova di concretezza e serietà. La stagione dei congressi darà loro ragione e a quegli altri torto (a meno di colpi di mano dell'ultimo minuto…). di Gianluigi Paragone  

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