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Milano, follia social: come rischiano la vita scalando antenne e palazzi

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Andrea Fatibene
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È una droga. La dopamina viene rilasciata, si sbloccano i meccanismi della ricompensa e del piacere mentre iniziano ad accumularsi i “mi piace” e il numero dei seguaci schizza su. Vertiginosamente in alto, si usa dire. Ma se la foto virale viene scattata dall’ultimo piano del grattacielo più elevato della metropoli, allora le vertigini restano anche fuor di metafora. Sono quasi sempre ragazzi giovani, difficile abbiano più di 25 anni. Anche perché, oltre ad avere un fisico prestante, per spingersi fino a quel folle limite serve anche un pizzico di delirio d’onnipotenza adolescenziale. Prima bisogna individuare la vetta da raggiungere, poi si deve elaborare un piano per conquistarla. Che sia un cantiere, un’antenna, l’ultimo piano di un grattacielo o il tetto vetrato della galleria Vittorio Emanuele, l’obiettivo è scalarla con in testa un unico mantra: «Take only photos, leave only footprints». Tradotto: non portare via niente se non fotografie, non lasciarti dietro niente se non le tue impronte.

Viene chiamato rooftopping, letteralmente “stare sulla punta dei tetti”, ma la stessa pratica può anche essere identificata con i termini roofing, buildering, urban climbing o con il più poetico skywalking – camminare sul cielo. Ci si arrampica sulle scale antincendio o scavalcando le cancellate appuntite, alla stregua di gatti che con passo felpato riescono sempre a trovare un modo per portarsi un gradino più in alto. Ma i pionieri di questa disciplina, più che scalatori, si considerano esploratori urbani. Negli anni ’90, quando il fenomeno ha iniziato ad avere una rilevanza come sottocultura urbana in procinto di globalizzarsi, l’intenzione principale era quella di immortalare – e quindi denunciare – gli effetti delle efferate dinamiche di urbanizzazione. Oltre ai punti panoramici, oggetto delle indagini dell’urban exploring possono essere le grosse strutture abbandonate o le vie sotterranee, come i tunnel per i treni metropolitani o le reti fognarie.

 

 

Ma questa pratica, già di per sé piuttosto pericolosa e che spesso comporta effrazioni o violazioni di proprietà privata, negli ultimi anni ha subito la corruzione delle meccaniche da social network. Quanti “mi piace” potrebbe valere uno scatto notturno del Duomo di Milano visto dai tetti della galleria? E la foto con i piedi a penzoloni sul cornicione a 100 metri d’altezza? Una vera e propria competizione interna alla comunità di rooftoppers che li stimola a raggiungere picchi sempre più alti, mete sempre più eccezionali. Ma se la ricerca incondizionata dell’adrenalina resta probabilmente il driver principale per questi giovani, non è da escludere ingolosisca anche la popolarità che questi scatti estremi possono garantire. E quando questi arrampicatori diventano piccole superstar dell’internet, con profili da decine di migliaia di seguaci, il rischio emulazione si fa più concreto. Da questo meccanismo di ricerca della popolarità, non confinato al rooftopping, scatenano incidenti già tristemente noti alla cronaca. Come ad esempio il recente caso del 18enne della provincia di Treviso, al quale è venuta la fatidica idea di “surfare” sul cofano dell’automobile in corsa, seguendo la scia di una moda Tik Tok ispirata a una serie televisiva di successo, per poi finire in ospedale dove ieri, dopo nove giorni di agonia, è venuto a mancare.

 

 

Stessa sorte riservata in passato ad altri sconsiderati praticanti del più modaiolo “balconing”, ovvero lo sfruttamento di una terrazza o di un tetto per esibirsi in uno spettacolare quanto insidioso tuffo in piscina, magari per stupire le ragazze ai party nelle discoteche di Ibiza, incoraggiati da una generosa dose di alcolici e dalla garanzia di diventare virali su internet. Ma per quanto certe persone con un’inguaribile inclinazione per la ricerca del brivido non si priveranno mai di certi gesti estremi, il rischio è che la paura di essere invisibile in un mondo, quello social, in cui l’anonimato è l’unico vero mostro da temere, possa portare troppi ragazzi ad affidare la propria caducità a un soffio di vento più violento o a una staffa che da un momento all’altro potrebbe non reggere più il peso del corpo, con la morte a pochi centimetri dal prossimo passo. Tutto in nome della vana fama digitale che, come una maligna seduttrice, piegherà i più deboli ai suoi folli capricci. 

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