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Amalia Ercoli Finzi: "La mia missione? Convincere le donne a sposare la scienza"

Simona Bertuzzi
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«C’è stato un tremito ed è nato l’universo». Si parla di big bang stasera e di buchi neri che inghiottono le stelle. Amalia Ercoli Finzi siede sullo scranno della trasmissione di Geppi Cucciari come sedeva alla cattedra di legno quando era docente al Politecnico. È minuta, elegante, i capelli cotonati con sapienza su una fronte fervida. Tra le sue mani la scienza diventa un ricamo e le comete amanti focose che inseguono il sole e si compiacciono del suo sguardo. Ha iniziato a fare la differenza il giorno in cui si è accomodata nell’aula Nord del Politecnico (era il ’56). Unica donna iscritta alla facoltà di Ingegneria Aeronautica quando l’astronomia non c’era e lo Sputnik era un elaborato confinato nei sogni e nei laboratori dell’Unione Sovietica. L’imbarazzo era palpabile. Un esercito di giovani ingegneri la guardava con circospezione. Poteva essere dramma e poteva finire subito. Invece è stata la porta per entrare nell’universo. E oggi che ha 86 anni, cinque figli e una famiglia che è un dono d’amore e di Dio, Amalia Ercoli Finzi continua a divulgare scienza e scardinare confini trascinando giovani brillanti (soprattutto le donne) in indirizzi universitari che ancora spaventano. Intervistarla è fare un viaggio in un curriculum che ha sorpreso il mondo (Nasa, la missione Rosetta, l’Agenzia Spaziale Europea) e nelle possibilità infinite che sono insite nel genere umano. 

Persino Milano si è inchinata e le ha riconosciuto la sua massima onorificenza. 
«Una grandissima soddisfazione e un grandissimo piacere per una ragione molto semplice: sono una milanese ariosa». 

Ariosa perché?
«Sono nata a Gallarate ma ho vissuto a Milano. E poi ho insegnato per anni al Politecnico». 

Di Milano che ha preso?
«Le caratteristiche buone di un milanese: la voglia di lavorare, considerare il lavoro come un valore che ti migliora. E poi l’altruismo, l’assoluta mancanza di razzismo». 

Prima donna a laurearsi nel ’62 ingegnere aeronautico... 
«Tutta la mia professione è stata rivolta all’astronautica tranne agli inizi in cui mi sono occupata un po’ di aeroplani perché ingegneria aerospaziale non esisteva. Erano gli anni in cui si affacciava l’ingegneria elettronica, ci feci un pensierino ma mi piacevano troppo gli aeroplani e l’aeronautica era la materia più avanzata dal punto di vista tecnologico». 

Risultato?
«C’ero io sola e sono passati altri 12 anni prima che si laureasse un’altra ragazza». Poi che è accaduto? «Sono diventata la donna delle missioni spaziali».

Un’altra scelta difficile.
«La scelta vera è stata fare ingegneria anche perché i miei genitori pensavano che fossi più adatta a fare matematica e insegnare, immaginavano una vita più tranquilla. Ricordo mio padre il giorno in cui gli comunicai che avrei fatto ingegneria». 

Cosa fece?
«Mi disse: ricordati Amalia, 5 anni! E io mi laureai in cinque anni con 100 e lode». 

Una famiglia illuminata.
«Eravamo 4 fratelli, due femmine e due maschi, uno purtroppo è mancato. La mia famiglia apprezzava moltissimo la cultura, per farci studiare i nostri genitori fecero di tutto. Il professore di matematica delle medie di Gallarate disse loro che ero portata per la matematica ma la scuola da fare era il liceo scientifico di Busto. E così mi iscrissero lì». 

Non male per i tempi.
«C’erano pochissime ragazze. Cinque su 52 studenti». 

Sarà stato difficile adattarsi.
«Era un mondo maschile e non era facile. Ma le mie compagne di liceo erano meno motivate di me. Si sono laureate e hanno fatto una bella strada però quando piangevano per ragioni amorose o perché un ragazzo non le aveva guardate io dicevo loro “ma con tutte le cose belle che ci sono al mondo possibile che troviate il tempo per queste sciocchezze?”». 

Ma anche lei si è innamorata.
«Ero già all’università e quando ho trovato mio marito è stato l’amore con la “a” maiuscola, avevo 22 anni». 

Anche lui un ingegnere?
«Sissignore. Molte donne ingegnere sposano un uomo ingegnere perché bisogna parlare un linguaggio in comune ed è indubbio che gli ingegneri parlano una lingua tutta loro. Il fatto di avere un marito che ti comprende, in una società che tende a isolare le donne ingegnere perché hanno fatto una scelta diversa dalle altre, facilita le cose».

Ma che lingua parlano gli ingegneri, mi scusi?
«È un linguaggio logico e rigoroso. Un linguaggio che si preoccupa di più del fare. Fare andare bene le cose, farle funzionare conta più degli altri fatti della vita come l’estetica che è compito degli artisti piuttosto che il sociale».

Un po’ di concretezza non guasta in questo mondo vacuo.
«Io dico sempre che noi ingegneri siamo la bassa manovalanza del Padre Eterno perché trasformiamo le idee in materia».

Vero che in lei si fondono scienza e fede! Mi racconti dello spazio. Quando parla lei di universo fa accendere scintille nelle menti più ottuse.
«Quando mi sono iscritta al Politecnico lo spazio non era nato. Era il ‘56 e lo Sputnik sarebbe andato in orbita l’anno successivo. Ma dopo la laurea ebbi occasione di tenere un corso che si occupava di meccanica aerospaziale e da lì è nato l’amore».

Perché la chiamano Signora delle Comete?
«Perché ho lavorato a una parte importante di una grande e meravigliosa missione europea chiamata Rosetta. Fu lanciata dall’Agenzia spaziale europea nel 2004 e si concluse nel 2016. L’obiettivo era lo studio della cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko. L’Europa è arrivata fino alla Cometa e l’Italia con lei. Sono orgogliosa di aver portato il mio paese fino lì».

Non ha mai pensato di andare nello spazio?
«Assolutamente no. Intanto io soffro anche l’ascensore per cui il mal di spazio per me sarebbe stata una cosa infernale. Secondo, perché dal mio punto di vista è molto più interessante essere nella stanza dei bottoni dove si fanno le manovre che determinano l’esito della missione che essere lassù e fare l’operaio della stazione spaziale oppure di un satellite».

Lavora sempre alla sua età? 
Sospira e sorride «L’età è tanta perché ne compio 87. E non mi fermo mai perché ho la fortuna di amare tutto quello che faccio. In ambito scientifico, più che di ricerca, mi occupo ormai di orientare i giovani che hanno bisogno di un aiuto nelle applicazioni spaziali e nelle grandi missioni di esplorazione. E poi cerco di mandare un messaggio a questa generazione di giovani che è molto fragile, soprattutto le ragazze».

Le ragazze faticano nelle materie stem?
«Le donne sono brave e possono fare tutto quello che vogliono ma devono avere preparazione, costanza e fiducia in se stesse».

Il gap non è colmato?
«Abbiamo raggiunto in ingegneria una presenza di donne pari al 20% sul totale.
Siamo molto lontane dalla parità ma il problema è ancora più complesso e riguarda sia le ragazze che i ragazzi».

Mi sta dicendo che anche i ragazzi hanno difficoltà?
«Le nuove generazioni sono lontane dai problemi delle materie scientifiche. Prediligono la finanza, la gestione aziendale e se vuole i problemi sociali, o climatici».

Cosa manca loro?
«La curiosità, la voglia di capire e di mettersi alla prova. Cercano temi più abbordabili o facili. Convincere le ragazze che possono essere ingegneri o matematici è invece una sfida che va affrontata con coraggio. Ma ci vuole preparazione! È solo la preparazione che dà la sicurezza. Se una è padrona della sua materia, delle sue conoscenze e capacità, è forte nell’imporsi e farsi apprezzare nel mondo del lavoro. Bisogna che le ragazze invece di pensare solo alle scienze umane che vanno di moda ora decidano di fare un liceo scientifico o un liceo classico e poi domani una scuola di ingegneria, di matematica, di scienze».

La scuola è all’altezza?
«Assolutamente sì. Le scuole italiane sono ottime».

Molte donne faticano a conciliare lavoro e famiglia. Ma lei ha avuto 5 figli.
«E si può fare. Ci vogliono accortezze e ci vuole metodo. Io ho applicato il metodo scientifico in famiglia».

Cito le sue parole: “Ai tempi voleva dire lavare ogni settimana 49 paia di calze e mutande”.
«Bisogna dare importanza solo alle cose importanti, le altre non vanno prese in considerazione. Poi bisogna saper delegare, non si può fare tutto da sole e farlo bene. Servono degli aiuti in casa e nell’accudimento dei figli, io ne ho cambiate tante di assistenti... (si vocifera 32, ndr)».

I figli sono impegnativi.
«Fare la mamma è un lavoro ingrato e difficilissimo... Bisogna dare loro il tempo che si può ma un tempo di qualità. E non rispondere “si” sempre come fanno tanti genitori. È molto più difficile dire un no, ma il no deve essere motivato e ci deve essere l’esempio dei genitori».

Hanno seguito le sue orme i suoi figli?
«Ciascuno ha fatto quello che voleva. Mia figlia per esempio ha fatto ingegneria nucleare e lavora con soddisfazione».

Mi dice la cosa di cui va più fiera?
«La mia famiglia, che io non definisco perfetta perché nessuno raggiunge la perfezione ma che amo moltissimo. L’amore che si trasferisce ai figli è un patrimonio che diamo alla comunità. I genitori sono uno strumento che la società adopera per allevare i figli. Purtroppo la società se ne infischia e delega tutto alle famiglie, invece dovrebbe fornire aiuti e supporti, come gli asili nido. Mi vanto di aver fatto al Politecnico un asilo nido per 36 bambini che funziona benissimo e grazie al quale abbiamo avuto una riduzione notevole delle assenze delle mamme».

Ma è vero che viviamo in una società patriarcale?
«Le previsioni dicono che ci vorranno 131 anni per raggiungere la parità, ma ogni conquista è un gradino che si sale e si può scendere. Nel corso del covid molte donne hanno perso il lavoro, sono state obbligate a una vita di regressione. Non è un problema solo di leggi ma di mentalità».

C’è un luogo di Milano che ama in particolare?
«Il palazzo di Brera, è bellissimo e da solo se fosse in un’altra città americana costituirebbe un centro di cultura eccezionale. Lei pensi che a Brera convivono l’accademia, la galleria, l’istituto lombardo di scienze e lettere, l’istituto astronomico...».

Milano citta illuminata?
«Può esserlo, dipende da come viene gestita, comunque gioca un ruolo fondamentale e trainante».

Rimpianti ne ha?
«Avere rimpianti è una stupidaggine, bisogna apprezzare le cose che si sono fatte, ma una cosa che mi dispiace c’è. Il Politecnico partecipava a un programma di scuole in Somalia, mi era stato chiesto se volevo andare là a insegnare. Ho dovuto dire di no perché avevo bimbi piccoli».

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