Giampaolo Pansa: Renzi sogna un suo 18 aprile, ma non è De Gasperi
Mi piace supporre che ieri, sabato 18 aprile, qualcuno dello staff di Matteo Renzi abbia ricordato al premier un anniversario importante. Quello della grande vittoria della Democrazia cristiana che decise il destino politico dell' Italia ancora immersa nel dopoguerra. Tutto accadde la bellezza di 67 anni fa, il 18 aprile 1948. Uno dei vantaggi nel diventare anziano è di aver vissuto, sia pure da tredicenne, quanto accadde allora. E adesso proverò a rammentarlo, tenendo d' occhio la città piemontese dove ero nato. Il protagonista assoluto di quella battaglia elettorale, la prima dopo la fine del conflitto se escludiamo il referendum del 1946 tra monarchia e repubblica, fu Alcide De Gasperi, il premier dc. Ai comunisti e ai socialisti, riuniti nel Fronte democratico popolare, il grande Alcide piaceva come la merda secca. Lo giudicavano un lacchè degli Stati Uniti e del Vaticano, amico dei padroni e dei fascisti. Il Don Basilio, un settimanale satirico anticlericale molto in voga, lo effigiava vestito da pretacchione e con il becco adunco da avvoltoio. I maschi del mio ambiente famigliare intimavano alle loro donne: «Guai se votate per questo qui!». Ma le donne alzavano le spalle. Due anni prima, avevano finalmente conquistato il diritto di voto. E non intendevano obbedire ai padri e ai mariti. Mia madre Giovanna replicava a mio papà Ernesto: «Farò come piace a me». Infatti lei avrebbe poi votato per la Dc, mentre lui, un socialista tiepido, avrebbe scelto Pietro Nenni, alleato con Palmiro Togliatti nel Fronte popolare. Gli storici accademici non sono mai d' accordo su nulla. Ma più o meno sembrano convinti che la vittoria di De Gasperi fu decisa dalle donne. Molte di loro giudicavano i capi frontisti dei parolai nocivi. Capaci soltanto di promettere rivoluzioni, comunismo, socialismo. Invece le italiane volevano uscire dal dopoguerra. Andavano al cinema a vedere i primi film americani. E ne uscivano sperando di avere anche loro alloggi moderni, la macchina per lavare i panni e le stoviglie, il frigorifero, l'asciugacapelli. La campagna elettorale venne condotta all' insegna delle ideologie contrapposte: quella liberale della Dc e quella staliniana del Pci e del Psi. Diventò subito cattiva. La città si divise, si combatté, si odiò. Sembrava ricominciata la guerra civile. Non mancavano le armi, quelle degli ex partigiani rossi e in parte anche dei bianchi. Poi in un Paese lontano dall' Italia, la Cecoslovacchia, accadde quello che nessuno si aspettava. Il 26 febbraio i comunisti di Praga fecero un colpo di Stato, deciso da Mosca. Si impadronirono del Paese e cominciarono a sbarazzarsi di chi non si piegava al nuovo regime. Nacque un governo agli ordini di Rudolf Slanskj, che quattro anni dopo Stalin avrebbe fatto impiccare. Il premier cacciato, Edvard Benes, disse a chi prendeva il suo posto: «Voi mi parlate con lo stesso tono dei capi nazisti». Il 10 marzo, il ministro degli Esteri, Jan Masaryk, si gettò o venne gettato in strada dalla finestra del bagno di casa e morì. Il golpe di Praga allontanò dal Fronte popolare molti elettori borghesi che sembravano orientati a sinistra. Però la mazzata decisiva alle speranze del Fronte venne dagli aiuti alimentari in arrivo dagli Usa. Mi ricordo bene il «Treno dell'Amicizia» che distribuiva in Italia il ben di Dio raccolto in molte città americane. Sui muri delle nostre strade comparve un manifesto con il disegno di uno sfilatino di pane che sembrava vero. Lo slogan diceva: «Il sessanta per cento di questa farina è americana». Si fece notare un dirigente democristiano destinato a diventare famoso: Amintore Fanfani. Con franchezza aretina spiegò: «L'Italia ha bisogno di aiuto, ma questo aiuto non può continuare se sputiamo nel piatto sul quale ci viene dato». Tuttavia il Fronte popolare era sicuro di vincere. In marzo c'era stato il test elettorale di Pescara. Qui le sinistre avevano conquistato il doppio dei voti guadagnati dalla Dc. E i democristiani cominciarono a temere di perdere. Circolavano le voci più assurde. Stalin aveva spedito in Italia un gruppo di ufficiali del servizio segreto per organizzare la deportazione degli attivisti bianchi. Le suore dei due conventi cittadini, la salesiane e le domenicane, si erano lasciate crescere i capelli per poter fuggire vestite da signore qualunque. Gli industriali del cemento stavano mandando al sicuro in Svizzera mogli, figli e amanti. In quel clima non bastavano le vignette di Giovannino Guareschi sul Candido, pur molto efficaci. Una raffigurava un elettore in cabina e la dicitura recitava: «Dio ti vede, Stalin no». In un'altra lo scheletro di un soldato italiano morto di stenti in Russia raccomandava alla madre: «Votagli contro anche per me». Il 21 marzo, domenica delle Palme, De Gasperi si recò con la moglie al santuario di Crea, poco lontano dalla mia città. Ma non a pregare la famosa Madonna Nera, venerata in tutto il Monferrato. Su quel bricco benedetto il premier doveva incontrare un altro democristiano importante: il leader del partito in Francia, nonché ministro degli Esteri. Era Georges Bidault, 49 anni, che era stato il capo della Resistenza francese dell' interno. Aveva la fama di essere un tipo duro, di poche parole, sempre pronunciate con una voce nasale e il tono aggressivo. De Gasperi di anni ne aveva 67 e gli domandò quale aiuto avrebbe potuto offrirgli nella disgraziata ipotesi di una vittoria comunista. Di fronte alla Madonna nera, Bidault garantì l' asilo politico al gruppo dirigente della Dc e a tutti i democristiani che avessero deciso di lasciare l' Italia caduta in mano a Stalin. Dopo l'incontro di Crea, De Gasperi raggiunse la mia città e parlò alla folla da un balconcino che si affacciava su piazza del Cavallo. Fu un discorso breve e non memorabile. Tuttavia mandò in estasi le tantissime donne che volevano applaudire il premier. I capi locali del Fronte avrebbero dovuto prevedere come sarebbe andata a finire il 18 aprile. Ma avevano ben altro per la testa. Si erano inventati il controcomizio, allestito sul lato opposto della piazza. Su un palchetto provvisto di altoparlanti, salì un giovanotto destinato a diventare uno dei grandi sociologi italiani: Franco Ferrarotti. Aveva 22 anni e si diceva che avesse interrotto da poco gli studi in seminario, dove era arrivato da Palazzolo Vercellese. Ancora oggi, a 89 anni, è un signore pimpante e qualche volta compare in tv. L'ho visto di recente ad Agorà, il talk show di Gerardo Greco, e l'ho trovato in splendida forma. Il Fronte popolare contava molto su di lui. Il settimanale cittadino delle sinistre, Rinascita democratica, lo descrisse pronto a scagliare «una stritolante requisitoria contro la politica nefasta dell'onorevole De Gasperi». Invece il giornale del vescovo, La Vita casalese, prese malissimo il passaggio di campo dell' ex seminarista. E lo bollò cosi: «Quel giovane ha l'inferno nel cuore». Il controcomizio ebbe un effetto nullo: una zanzara sulla pelle di un rinoceronte. Anche nella mia città, che sembrava molto rossa, vinse la Dc per un migliaio di voti. Ma l' esito nazionale fu sbalorditivo: 12 milioni e 741 mila voti la Dc, 8 milioni e 137 mila voti il Fronte popolare. Immagino che a Matteo Renzi farebbe gola un trionfo così. Ma nonostante l'Italicum e le diavolerie connesse, lui non è un De Gasperi. di Giampaolo Pansa