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Fondi neri al Viminale, spunta il nome del giudice Esposito

di Eliana Giusto domenica 18 agosto 2013

Antonio Esposito

3' di lettura

Pigliamoci un caffè. Anzi, organizzami un appuntamento con papà tuo per «pigliarmi un caffè» e «notiziarlo su alcune cose». «Va bene, non si preoccupi, poi la chiamo».  Una conversazione come tante, se non fosse per i protagonisti della telefonata. Da una parte Ferdinando Esposito, pm del Tribunale di Milano e figlio del più noto Antonio, il presidente della Corte di Cassazione che il primo agosto ha confermato la  condanna a 4 anni per Silvio Berlusconi nel processo Mediaset; dall’altra Franco La Motta, prefetto e vice direttore dell’Agenzia informazioni e sicurezza interna fino al marzo 2013. Ovvero fino a tre mesi prima del suo arresto  (per timore di inquinamento delle indagini) nell’ambito dell’inchiesta sulla scomparsa di 10 milioni di euro dal Fondo “Edifici di Culto” del Ministero dell’Interno. La conversazione è emersa nel corso delle intercettazioni dei carabinieri sul telefono di La Motta, accusato di peculato e falsità ideologica nell’inchiesta  del pm Paolo Ielo. Proprio il pm romano ha chiesto al gip un incidente probatorio per il broker italo-svizzero Rocco Zullino, destinatario dell’investimento da 10 milioni del Fec in Svizzera e a sua volta arrestato dalla Dda di Napoli perché sospettato di essere il “riciclatore” del clan camorristico dei Polverino. Nell’ordinanza il gip scrisse che si trattava di «una indicibile beffa per i cittadini che in una epoca di necessaria austerità» devono «apprendere dai giornali che i soldi pubblici gestiti da un ministero, quello degli Interni, erano andati a confluire su un fondo» all’estero. La richiesta di Ielo è motivata dal timore che Zullino - grande accusatore di La Motta - possa subire pressioni o minacce che lo inducano a modificare le sue dichiarazioni. Il caso del Fec è una costola di una più complessa indagine condotta dai pm antimafia di Napoli sugli affari e le conoscenze del clan Polverino nei palazzi istituzionali. “Entrature” così potenti da permettere al clan di far cacciare il sostituto procuratore che per primo si era occupato del caso.  Tra l’altro, proprio a Napoli, La Motta è indagato a piede libero per rivelazione di segreto dopo l’accusa di un collaboratore di giustizia che aveva raccontato che il prefetto avrebbe avvisato i boss di indagini a loro carico e «sistemato le carte». Ma questa è un’altra storia.  La telefonata tra Esposito e La Motta appare nelle carte della procura romana, ne parlano in un’informativa i carabinieri del Ros che (secondo quanto riportato da Il Sole 24 ore) ricostruiscono così la dinamica della comunicazione: prima il prefetto chiama Esposito su un’utenza a lui intestata (e gli parla per pochi secondi), poi Esposito lo richiama da una linea intestata al Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria. La Motta chiede un appuntamento con suo padre Antonio per «pigliarmi un caffè» e «notiziarlo su alcune cose»,  ed Esposito risponde: «Va bene, non si preoccupi, poi la chiamo».  Conversazioni che il gip Massimo Di Lauro ha definito «ambigue», nonostante abbia precisato «l’assenza di ulteriori comunicazioni» tra i due che possano «indurre anche solo a ipotizzare che il cercato contatto con la persona che si ipotizza essere consigliere di Cassazione sia andato a buon fine». Inoltre il contatto «potrebbe essere legato non alle indagini in corso ma al conseguimento del prossimo incarico di cui La Motta fa cenno» nella già citata telefonata intercettata.   Non è la prima volta che Esposito jr. finisce nell’occhio del ciclone. Nel maggio 2012 aveva rischiato una sanzione disciplinare (è stato poi prosciolto lo scorso gennaio) per essere andato a cena con Nicole Minetti, imputata nel processo Ruby bis. La notizia era apparsa sui siti come indiscrezione ma in tribunale erano stati in tanti ad aver pensato al suo nome. Esposito, «alto, di bell’aspetto, palestrato, proprietario di una Porsche» secondo Il Fatto, quando era arrivato a Milano lasciando il turbine di Vallettopoli aveva detto: «Anche se vengo da Potenza io non parlo con i giornalisti». Con tutti, tranne che con loro. di Salvatore Garzillo

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