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Pietro Senaldi e gli auguri a Libero: da redattore a direttore in 15 anni

Giulio Bucchi
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Da redattore a direttore responsabile in 15 anni. Non ricordo molto di quell'estate di inizio millennio. L'immagine più nitida è Vittorio Feltri al tavolo della riunione, la mattina di lunedì 17 luglio 2000, vigilia della prima uscita in edicola. Disse poche parole: «Vabbeh, fino a oggi abbiamo scherzato, ora facciamo sul serio». A buon intenditor… Nei giorni precedenti avevamo fatto qualche “numero zero”, le edizioni di prova, che evidentemente non l'avevano soddisfatto. Io venivo da Roma, Giornale d'Italia, destra, dove mi aveva portato Gianluca Marchi, il direttore fondatore della Padania, nonché primo giornalista che abbia avuto l'ardire di farmi un contratto a tempo indeterminato. A Libero era caporedattore centrale, l'uomo che organizza il lavoro di tutti e fa da cinghia di trasmissione tra la direzione e la redazione, mansione che dopo è stata mia a lungo. Era il terzo contratto che gli dovevo. Un'assunzione nel nostro mestiere è gratitudine eterna, figurarsi tre. Altri tempi però. Lo conobbi in via Bellerio, dove mi portò un collega, Luca Benecchi, oggi al Sole 24Ore, dal Giornale di Feltri, del quale ero collaboratore. Gianluca vide qualcosa e mi assunse subito. Lasciai anche un'intensa collaborazione a Donna Moderna, dove mi insegnarono a scrivere: ogni riga, una notizia, era l'imperativo. Ma io volevo fare il quotidiano, trasmigrai ed ebbi così l'occasione di conoscere Matteo Salvini, magro e ventenne, talvolta anche in bermuda, responsabile della pagina delle lettere sotto la supervisione di Bossi. Si faceva un'ora al giorno con il Senatur a scorrere le missive dei militanti, e penso che molto del suo successo di oggi sia dovuto a quell'apprendistato. Da fiuto a fiuto. Io a quei tavoli ero un tecnico, come si dice dei ministri non portati dal partito, ma i mille giorni in Padania, mondo che fino al gennaio 1997 mi era pressoché sconosciuto, mi sono serviti tanto, per capire e apprezzare, e me li ritrovo tutti oggi, mentre assisto allo sconcerto di schiere di professori, politologi e cacasenno che non si capacitano che gli elettori ascoltino le dirette facebook del leader leghista anziché le loro fini analisi. La professione del giornalista per me è stata una scelta tardiva, dopo l'università, quindi totale e definitiva. Oddio, avevo 25 anni e oggi sarei considerato un poppante, ma ancora nell'Italia di metà anni Novanta, se a quell'età non avevi quagliato, pezzo di carta o no in tasca, eri considerato un bamboccione. E tu eri il primo a pensarla così. Perciò ce la misi tutta, più che altro per rispetto a me stesso e per cercare di diventare padrone della mia vita. Più fame che sacro fuoco, insomma, ma questo mi ha permesso di mantenere una certa distanza dai fatti e dalle idee e di apprendere da tutti. Per un giornalista, la terzietà ritengo sia una dote, considerato che l'oggettività non esiste. Decise l'adrenalina - Libero l'ho voluto a tutti i costi. Erano tempi ancora grassi per i giornalisti, anche per i giovani, che costavano poco, sebbene più di adesso. In una settimana dovetti scegliere tra la free press, un posto da redattore in una radio legata a un importante gruppo editoriale e l'avventura con Feltri e Farina; Sallusti non lo conoscevo ancora. Vita comoda, sicurezza o scommessa? Decise l'adrenalina. Io volevo stare a contatto con i migliori, avere la possibilità di parlarci, vederli tutti i giorni. La grande azienda non ti dà questa chance. Volevo imparare, mettermi alla prova, lavorare tanto, che è la via più rapida e sicura per crescere. I migliori a quel tempo stavano a Libero, e oggi penso ancora sia così, quindi stabilii di puntare su me stesso e chi mi ero scelto come maestro. Non mi sono mai pentito, anche se la via è stata lunga e faticosa, ricca di rinunce e non priva di umiliazioni. «Se vuoi imparare a scrivere, sceglitene un paio che ti piacciono e imitali, così svilupperai uno stile tuo», mi ha detto Feltri tanto tempo fa. Per dieci anni non ho scritto più di una volta al mese, anche meno, impegnato nella fattura del giornale, a farlo girare tutto, mentre il direttore mi spingeva a staccare per cimentarmi in qualche articolo, anche a costo di mollare la macchina, perché «un giornalista che non scrive, non esiste e tutti devono poterlo fare sul proprio giornale». Ho imparato la lezione; fin troppo, direbbe lui. I quotidiani sono una caserma, hanno una linea e bisogna marciare in riga. Ma Libero è stato sempre un po' libertino in questo. Il contrasto di opinioni e il gusto della provocazione, in un contesto corale, sono la sua forza. Per questo è un giornale ricco, pur essendo povero. Perché trovano spazio le idee, anche le più originali, e ha la forza di dire bianco o nero senza mezze misure. Gli altri giornali pure te lo dicono, ma preferiscono allestire un'impalcatura posticcia e fintamente oggettiva, per convincerti di quel che pensano senza fartene accorgare. Noi siamo frontali, per questo a volte facciamo incazzare anche chi ci ama. Figurarsi gli altri. Abbiamo ospitato centinaia di collaboratori, i più bravi e i più stravaganti. Talvolta ho avuto la sensazione, in queste stanze, di trovarmi tra gli avventori del bar di Guerre Stellari, tanto era pittoresca ed eterogenea la formazione. Chi non è mai stato qui fa fatica a capirlo, ma anche questo è un segnale dell'apertura e mancanza di pregiudizi di Libero, molto più accogliente e integratore della media. Comunque, al bar di Guerre Stellari ci avevo già fatto la mano in Padania: comunisti padani, gay padani, indipendentisti del Verbano-Cusio-Ossola, ultrà venetisti, libertari, conservatori-agrari, democratici europei per il lavoro. Via Bellerio era un bazar prealpino. Un giorno ho trovato seduto al mio posto un ragazzo tutto nero che pestava sulla mia tastiera. «E lui chi è?». «Un nuovo collaboratore», mi risposero serafici. Una volta, a un pranzo, un importante direttore, ex di tante illustri cose, al quale avevo sintetizzato il mio curriculum mi disse: «Certo che arrivi dai bassifondi». Credo sia un di più, ti aiuta a tirare fuori la personalità, a condizione che tu ce l'abbia, e ad apprezzare il viaggio in prima classe, se ci arrivi. Andata e ritorno - Ho tradito anch'io, prima di tutti, ma una volta sola. Fui il primo a essere chiamato dal Giornale, che cercava di svuotare la preoccupante concorrenza. Per me, che venivo dai bassifondi, era un punto d'arrivo, il quotidiano del presidente del Consiglio, una grande occasione. Scoppiai a piangere, come mi capita talvolta quando le emozioni positive mi scuotono. Perché era un successo ma anche una perdita. Infatti tornai nel giro di 18 mesi, come caporedattore centrale unico, richiamato da Sallusti, il grande seduttore, nonché tra i miei più importanti padri professionali. «Mi sono distratto un attimo e me l'hanno riassunto», commentò Feltri, che a battute non è secondo neppure a Crozza. Anche se le sue fanno più male. La salvezza è che ci si abitua. Quando lasci un lavoro dopo un periodo relativamente breve, è sempre soprattutto colpa tua. Per giustificarmi mi dissi che, se stai in una grande azienda, tu e i lettori dovete averne anche i vantaggi, e non solo gli svantaggi, e che quello che conta non è la stazza, che è variabile, ma le dimensioni dell'obiettivo. Tornai, e da piccoli diventammo grandi, fino a superare in pochi anni la concorrenza. In realtà, forse, avevo solo voglia di rientrare a casa, e in prima linea. Un giorno Feltri mi invitò al ristorante e io gli chiesi: «Ma Libero sta venendo come lo avevi in mente?». «Hai presente quando progetti una casa, tutta su un piano, nel verde, senza scalini? Bene, è venuto fuori un grattacielo» fu la risposta. Grazie a Dio i geometri non sono sensibili, mi concentrai sul piatto ma annotai, al solito. Come tutti i traditori, venni abbandonato dall'oggi al domani. Rimasi solo, con a Roma l'altro vicedirettore, Carioti, e i nuovi arrivati, Belpietro come direttore e Bechis come vicedirettore, e la redazione decimata di collaboratori, a mandare avanti la baracca. Mi lasciarono qui, confidando che avrei contribuito a timonare la nave contro gli scogli. Grave errore. Qualcosa avevo imparato e grazie ai lettori e allo spirito di Libero, che non trasmigrò e io mi battei per mantenere vivo, continuammo a navigare. Poi il ritorno di Feltri e del sereno e la mia nomina a direttore responsabile, della quale ringraziai, oltre che Vittorio - il “maestro” irraggiungibile che con una punta di compiaciuto sadismo appella così gli altri - e i proprietari della testata, Antonio e Giampaolo Angelucci, anche Daniele Cavaglià, il dirigente del gruppo editoriale che più ha creduto in me. Abbiamo iniziato da ragazzi, prendendoci a cornate. Ha avuto la forza di dimenticarsene, la sensibilità di capire che siamo entrambi animati dallo stesso amore per questo giornale e il coraggio di scommettere su di me. Spero sia anche dotato di intuito. Mi capita ogni tanto che qualcuno mi chieda cosa voglio fare in futuro. Francamente, io qui a Libero non mi sento neppure a metà del mio percorso. Confido di continuare e magari seminare ancora qualcosa, che è poi l'unico modo per raccogliere e garantirsi un futuro, per chi ci tiene. Un ringraziamento a Giuliano Zulin, il primo vicedirettore che ho nominato in vita mia, e a tutti gli altri della redazione che mi hanno aiutato e ancora lo fanno, giocandosi la partita. Al mio posto di caporedattore centrale adesso c'è Lorenzo Mottola. Coraggio, so cosa vuol dire. di Pietro Senaldi

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