Cerca
Logo
Cerca
+

Bruno Vespa: "L'Italia vuole la pace e noi gliela daremo". Rischio-fascismo? Solo balle

Caterina Spinelli
  • a
  • a
  • a

La sera del 2 gennaio Mussolini fece recapitare al re un decreto per lo scioglimento della Camera. Vittorio Emanuele restò spiazzato e non lo firmò. Disse che l' avrebbe fatto dopo l' approvazione della nuova legge elettorale da parte della Camera e dopo la conclusione del processo Matteotti, prevista non prima della primavera. A quel punto il Duce decise di agire in prima persona. La mattina del 3 gennaio si presentò alla Camera e parlò a braccio. Esordì in modo perentorio e con tono di sfida: «L' articolo 47 dello Statuto dice: "La Camera dei deputati ha il diritto di accusare i ministri del re e di tradurli dinanzi all' Alta corte di giustizia". Domando formalmente se in questa Camera, o fuori di questa Camera, c' è qualcuno che si voglia valere dell' articolo 47». Leggi anche: "Il Conte-bis nato da un equivoco": la verità di Bruno Vespa L' AVENTINO Quindi rivendicò di aver pronunciato il 7 giugno 1924 «profonde parole di vita»: «Avevo stabilito i termini di quella necessaria convivenza senza la quale non è possibile assemblea politica di sorta. E come potevo dopo un successo così clamoroso, che tutta la Camera ha ammesso, comprese le opposizioni, per cui la Camera si riaperse il mercoledì successivo in un' atmosfera idilliaca come potevo pensare, senza essere colpito da morbosa follia, non dico solo di far commettere un delitto, ma nemmeno il più tenue, il più ridicolo sfregio a quell' avversario che io stimavo perché aveva una certa crarerie (spavalderia), un certo coraggio, che rassomigliavano qualche volta al mio coraggio e alla mia ostinatezza nel sostenere le tesi? (Lo ammirava, sì, ma qualche giorno prima del rapimento il "Popolo d' Italia" aveva scritto in un corsivo: "Se Matteotti si troverà un giorno con la testa rotta dovrà ringraziare solo se stesso e la sua testardaggine".] «Fu alla fine di quel mese, di quel mese che è segnato profondamente nella mia vita,» proseguì Mussolini «che io dissi: "voglio che ci sia la pace per il popolo italiano"; e volevo stabilire la normalità della vita politica italiana. Ma come si è risposto a questo mio principio? Prima di tutto, con la secessione dell' Aventino, secessione anticostituzionale, nettamente rivoluzionaria. Poi con una campagna giornalistica immonda e miserabile che ci ha disonorato per tre mesi. Le più fantastiche, le più raccapriccianti, le più macabre menzogne sono state affermate diffusamente su tutti i giornali.» Ricordò l' assassinio del deputato fascista e vicesegretario generale delle Corporazioni sindacali Armando Casalini, che morì povero («Aveva 60 lire in tasca»), ed elencò gli 11 fascisti uccisi tra novembre e dicembre, di cui 8 nelle ultime 48 ore. Poi rifiutò ogni accostamento alla Ceka, trovando grottesco l' accostamento con quella sovietica, «che ha giustiziato tra le 150 e le 160.000 persone», e aggiunse: «La violenza per essere risolutiva deve essere chirurgica, intelligente e cavalleresca. Ora le gesta di questa sedicente Ceka sono state sempre inintelligenti, incomposte e stupide». Dopodiché andò al sodo: «Io dichiaro qui al cospetto di questa assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano che assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello e non invece una superba passione della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un' associazione a delinquere, se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico, morale, a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l' ho creato con una propaganda che va dall' intervento fino ad oggi». CAMPO LIBERO Infine, la conclusione teatrale: «L' Italia, o signori, vuole la pace, vuole la tranquillità, vuole la calma laboriosa; gliela daremo con l' amore, se è possibile, o con la forza se sarà necessario. Voi state certi che nelle quarantott' ore successive al mio discorso, la situazione sarà chiarita su tutta l' area». La Camera, senza l' opposizione aventiniana, gli diede campo libero. E lui mantenne la parola. La notte stessa del 3 gennaio il ministro dell' Interno Federzoni diramò due telegrammi ai prefetti: vietate manifestazioni, comizi, cortei. Chiusi i circoli antifascisti, rigorosa applicazione delle misure repressive sulla stampa. Sarà necessario oltre un anno per la definitiva rottura di ciò che restava delle libertà democratiche e costituzionali. Ma, come dice Paolo Monelli, dal 3 gennaio 1925 «il buon dittatore diventò semplicemente un dittatore». di Bruno Vespa

Dai blog