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Dario Fabbri, "in Asia scoppierà la terza guerra mondiale": come e quando

Mirko Molteni
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La morte di Shinzo Abe, primo ministro del Giappone dal 2006 al 2007 e soprattutto dal 2012 al 2020, segnala scomparsa di un leader che ha fatto riprendere al Sol Levante uno status di potenza regionale inserita negli equilibri di sicurezza dell'Asia Orientale, dove a una Cina sempre più armata si contrappongono gli Stati Uniti e i loro alleati, fra cui Tokyo. Ne parliamo con l'analista geopolitico Dario Fabbri, direttore della rivista mensile Domino.

 

 

 

Qual è stata l'importanza di Abe per il suo Paese?
«Abe è stato interprete di una visione innovativa della politica estera giapponese, puntando al recupero di una continuità con le passate esperienze, anche le più nefaste, della politica imperiale. Lo ha fatto anche mediante i suoi pellegrinaggi al tempio di Yasukuni, a Tokyo, dove vengono venerati come martiri, assurti a kami, cioè divinità scintoiste, i caduti delle guerre del Sol Levante. Comunque, il fattore determinante è stato l'ascesa della Cina. La paura del riarmo di Pechino avrebbe spinto qualsiasi premier al posto di Abe ad agire nello stesso modo. Si può dire quindi che Abe abbia cavalcato il momento, anche tentando di emendare la costituzione pacifista del dopoguerra, contro gran parte della stessa società nipponica. Ma il pacifismo costituzionale nipponico non è il pacifismo che intendiamo noi. È più che altro isolazionismo, ossia la propensione a non mandare le forze giapponesi in missione all'estero e ad affidarsi all'ombrello della protezione americana. L'ascesa della Cina e un certo disimpegno statunitense dall'Asia Orientale, nel frattempo concluso, hanno indotto invece la volontà di restaurare uno strumento militare».

Fra l'altro le isole nipponiche sembrano quasi "condannate" dalla loro stessa posizione a non sottovalutare la propria sicurezza militare, non è così?
«Certo, il Giappone è molto vulnerabile. È un arcipelago fittamente popolato che deve importare tutte le risorse energetiche e le materie prime dall'estero. Perciò la sua sicurezza dipende dalla protezione delle rotte marittime di approvvigionamento. I giapponesi hanno sempre guardato al mare, specie da quando a metà dell'Ottocento furono costretti dagli occidentali ad aprirsi al commercio estero. Ma oltre che al controllo delle rotte marittime, il Sol Levante ha mirato anche al dominio su territori continentali che assicurassero materie prime. Classico esempio, la Manciuria, nella Cina del Nord, ricca di carbone e ferro. E la più cocente sconfitta alla Russia fu inflitta dal Giappone nel 1905 con la battaglia navale di Tsushima. Negli ultimi anni, uno dei passi più importanti fatti da Abe è stato far passare allo status di "portaerei" le due navi Izumo e Kaga, prima classificate solo "portaelicotteri"».

 

 

 

E riguardo all'Abenomics, l'economia secondo Shinzo?
«La politica economica di Abe ha rilanciato i consumi e disincentivato il risparmio. Ma ha avuto anche dimensione strategica: grazie a tassi d'interesse negativi, ha spinto le grandi conglomerazioni industriali giapponesi a investire molto di più all'estero. E dove? Nelle stesse nazioni che durante la Seconda Guerra Mondiale erano occupate dall'armata nipponica. Per esempio Filippine, Vietnam, Indonesia, Taiwan. Fa eccezione la Corea del Sud, che non ha bisogno di investimenti giapponesi e ha conservato risentimento per il Sol Levante. Si può dire che, con la sua influenza economica in una vasta area dell'Asia, il Giappone si confermi uno dei Paesi più importanti del mondo, molto più di quanto si possa sospettare a prima vista».

L'assertività del Giappone s' inquadra nel contesto strategico che vede nazioni insulari e peninsulari formare una cintura di contenimento attorno alla Cina. Quanto sono alti i rischi di incidenti militari tra forze cinesi e dei Paesi alleati degli americani?

«Il rischio è molto alto. I Paesi dell'area hanno tutti paura della Cina e guardano agli Stati Uniti come principale alleato. Fanno eccezione pochi Stati, ad esempio Birmania, Cambogia e Laos, in sostanza inseriti nell'orbita cinese. La stessa India, che pure è fra i BRICS con Russia e Cina, è nemica di Pechino. Pur non essendo filoamericana, come dimostra il suo atteggiamento nella crisi russo-ucraina, è anche nel gruppo Quad con Usa, Giappone e Australia. Anche perché soldati indiani e cinesi si sono spesso scontrati sulle frontiere dell'Himalaya. Il Vietnam, poi, pur nemico di un tempo, è oggi molto legato agli Stati Uniti».

Il pericolo più incombente è quello di un conflitto fra Cina e Taiwan. Dal punto di vista militare, sarebbe diverso dalla guerra fra Russia e Ucraina, trattandosi di un'invasione anfibia di un'isola ben munita e non di una graduale avanzata terrestre da frontiere comuni. Ma in senso geopolitico, potrebbe avere riflessi simili?

«Un attacco cinese a Taiwan avrebbe effetti più diretti e drammatici della guerra Mosca-Kiev. Non si porrebbe un problema di rifornimenti di armi perché Taiwan si prepara da 70 anni a resistere a uno sbarco cinese e dispone di industrie all'avanguardia, specie nell'elettronica. A differenza della questione ucraina, in una guerra per Taiwan, gli Stati Uniti, ma anche il Giappone, la Corea del Sud, l'Australia, e forse anche la Gran Bretagna, interverrebbero contro i cinesi. Sarebbe già una guerra mondiale. È vero che una guerra mondiale l'abbiamo rischiata anche per l'Ucraina e un po' la rischiamo ancora, ma per Taiwan essa scoppierebbe subito. Il rischio è reale se si pensa che il presidente cinese Xi Jinping ha promesso che Taiwan verrà "recuperata dalla Cina entro il 2049", cioè entro il centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese. A differenza dell'Ucraina, gli Stati Uniti non possono evitare di difendere militarmente l'isola. Se non lo facessero, gli altri alleati, Giappone compreso, capirebbero di non poter contare sulla protezione americana e scenderebbero a patti con la Cina». 

 

 

 

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