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Oriana Fallaci, "quelle dodici camicie per intervistare Marylin Monroe"

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Per gentile concessione dell’editore Rizzoli pubblichiamo un estratto del libro “Gli adorabili”, una raccolta di articoli di Oriana Fallaci quando era inviata negli Usa per «l’Europeo». La giornalista racconta la “fabbrica dei divi”, smascherando le contraddizioni della società. Di seguito, una parte del reportage su Marilyn Monroe in cui racconta come cercò di intervistare l’attrice (senza riuscirci). 

La mia avventura con Marilyn Monroe ebbe inizio ad Hollywood la mattina del 9 gennaio 1956 quando mi recai dal regista Jean Negulesco con una valigia piena di camicie da uomo. Ero venuta negli Stati Uniti per pochi giorni, insieme ad altri quattro giornalisti italiani, a bordo di un Super G. Constellation della Twa che inaugurava la linea Roma -Los Angeles; e c’era un solo argomento che volevo affrontare da vicino: il mito Marilyn Monroe. Sapevo che, da alcuni mesi, incontrare l’attrice era diventato misteriosamente impossibile ma non me ne preoccupavo. Ero riuscita a intervistare Soraya nella sua reggia di Teheran nei giorni di maggior tensione, avevo parlato con Townsend a Bruxelles, nel periodo in cui egli sfuggiva ai giornalisti come un gatto arrabbiato, e pensavo che dopotutto Marilyn era soltanto una diva: qualcosa di meno, cioè, di una imperatrice e di un pretendente alla mano di una principessa d’Inghilterra. La mia fiducia era alimentata inoltre da dodici camicie da uomo che Pepi Lenzi, un attore italo-americano, mi aveva dato a Roma da portare a Jean Negulesco. 

I COLLETTI
L’attore le considerava alla stregua di una potente lettera di credito. Ione ero convinta. Le avevo sistemate in valigia con devozione, e durante tutto il viaggio, mentre gli altri si beavano a guardare l’Atlantico e le isole Azzorre, il problema del loro trasporto mi aveva angosciato. Mi preoccupavo che non si sgualcissero. Soffrivo per questo sospetto. Dalla maggiore o minore freschezza dei colletti dedicati al signor Negulesco mi sembrava che dipendesse la riuscita dell’intervista. Estrarle intatte dalla valigia dopo trenta ore di volo fu motivo di esaltante sollievo. Telefonai al regista. La parola «camicie» ebbe un magico effetto. Disse che era ansioso di vedermi. Mi invitò subito a colazione nel suo bungalow della 20th Century Fox, alla punta estrema di Beverly Hills. 

La mezz’ora che impiegai per arrivarci percorrendo l’interminabile Sunset Boulevard mi sembrò più lunga del viaggio in aereo. Negulesco mi aspettava sull’uscio di casa con un sorriso ansioso sul volto sanguigno, mi mi offrì ringraziò con effusione, vino francese, non mi chiese neppure cosa volevo. Durante il pranzo mi parlò della sua vita, dei quadri che faceva quand’era un pittore affamato, dei centosettanta vestiti, delle trecentoventi paia di scarpe, delle quattro mogli che si era procurato non appena raggiunta la ricchezza; e sembrava talmente convinto che mi fossi recata ad Hollywood per intervistare lui che, fino al formaggio, non ebbi il coraggio di deluderlo. Solo alla frutta portai il discorso su Marilyn Monroe. Negulesco l’aveva diretta nel film Come sposare un milionario, cominciai col chiedergli che tipo fosse. «Una ventinovenne così e così» rispose. 

«Certo non si merita il successo che ha. Ma è terribilmente ambiziosa e lavora con impegno. Non è neppure un’oca, come dicono. È una timida piena di complessi di inferiorità. Quando gli altri parlano li ascolta a bocca aperta, come se dicessero cose meravigliose. Quando la interrogano resta zitta, per paura di dire sciocchezze. Talvolta balbetta. Non risponde mai a una domanda senza chiedere consiglio a un amico. Una volta un reporter le chiese che colore preferisse. Lei disse: “Aspetti un momento”. Venne da me e chiese: “Jean, qual è il colore che dovrei preferire?”. “Bene” osservai, “non te lo sei mai domandato?” E lei: “No. Dimmelo tu che sei un pittore”. “Bene” dissi, “sceglierei il rosso.” “Bene” disse lei. “E perché mi piace il rosso?” “Bene” dissi io, “perché è violento, dà nell’occhio, come te.” “Bene” disse lei, e rispose al reporter pari pari.» 

LE CONFESSIONI
Parlava tanto volentieri di Marilyn Monroe che decisi di dirgli la verità: volevo intervistarla ed ero andata da lui con le camicie sperando che mi potesse aiutare. Di colpo Negulesco si irrigidì. Mi guardò con odio. «Non è a Hollywood»m rispose secco. «Lo so» replicai. Da undici mesi infatti Marilyn aveva rotto con la Fox, alla quale la legava un contratto di sette anni, ed era andata a vivere a New York. Si riteneva mal pagata, voleva centomila dollari per film (una somma pari a sessantacinque milioni di lire) e non era stato difficile per Milton Greene, la sua anima nera, convincerla a fare quest’atto di ribellione. 

Milton Greene è un giovane fotografo. La conobbe due anni fa per un servizio su «Look» e conquistò subito la sua amicizia. Ora è diventato il suo manager, è ricco, può vivere comodamente senza fare il fotografo. Si dice anche che sia comunista, ma l’accusa non lo preoccupa. Marilyn gli obbedisce come a un padrone. Fu lui a farle fondare una casa produttrice indipendente, la Marilyn Monroe Productions, di cui assunse la carica di presidente. E quando la 20th Century Fox minacciò di farle causa per l’illegalità dell’atto, lui le ordinò di tener duro e Marilyn l’ebbe vinta. La settimana prima di Natale la Fox ha rinnovato il contratto impegnandosi a versare, per ciascuno dei quattro film che la Monroe deve ancora girare, i centomila dollari richiesti. 

«Lo so che non è a Hollywood, ma lei può aiutarmi lo stesso, se vuole.» Negulesco scosse la testa. «Si sbaglia» rispose «Non ci posso far nulla. Nessuno può farci nulla.» Lo sguardo gli cadde sulla valigia delle camicie. Arrossì un poco. «Darling, mi dispiace tanto» aggiunse. «Anche a me» dissi, «ce la farò lo stesso.» Di nuovo Negulesco scosse la testa. «Darling» disse, «l’America è forse il Paese più democratico del mondo. Può vedere chi vuole, quando vuole. 

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